È un film fatto quasi con nulla, Zerzura. C’è il deserto con i suoi paesaggi arsi e sterminati, c’è l’uomo che cammina sotto il sole e nella notte, ci sono giusto un paio di interni, c’è un semplice costume fatto con un lenzuolo, una maschera artigianale e i trucchi direttamente sulle palpebre degli attori, e tutto il resto è una commistione fra studio e immaginario, sono idee, sono stratificazioni, sono esplorazioni culturali, sono nette e consapevoli scelte di messa in scena. È capacità di trasformare i limiti di budget in una forma espressiva coerente, magmatica, ammaliante, sospesa fra il fascino misterico delle leggende che permeano il più radicato folklore tuareg e l’osservazione più pura dell’uomo nel paesaggio. Presentata in concorso alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2018, l’opera seconda del musicologo, antropologo, produttore musicale, DJ e ormai regista Christopher Kirkley, nativo di Portland ma da sempre focalizzato nelle sue produzioni sonore e nei suoi studi sull’Africa sahariana, parte da uno stile documentaristico fatto di pedinamenti e di intenti antropologici per inserirsi in un contesto di pura finzione che è smaccatamente western ma al contempo è anche magico-surreale, dove Jean Rouch incontra John Ford, Sergio Leone e Alejandro Jodorowsky sulla strada di un film pressoché collettivo, sorta di “saggio di regista e (non) attori” à la Jim Jarmusch.
Realizzato in gran parte al primo ciak su una linea di trama volutamente esile che lasciasse ampio spazio all’improvvisazione e fondato sull’uso sapiente e distorto della chitarra blues, suonata dallo stesso protagonista e vero e proprio co-autore Ahmouhdou Madassane, che è al contempo straniante e pienamente coerente nel suo respiro berbero, Zerzura parte dall’omonima oasi leggendaria, presente negli scritti sin da poco dopo il 1000 ma mai localizzata e probabilmente inesistente, per mettere in scena la sua ricerca fra sfocature, (a)simmetrie, zoom stranianti, raccordi di montaggio sui movimenti a schiaffo della macchina, bruschi passaggi, dissolvenze incrociate, arresti e sostituzioni come ritorno agli albori dell’effetto speciale, lievi differenze fotografiche inevitabili girando in condizioni così estreme fra una tempesta di sabbia e l’altra, momenti ridoppiati in postproduzione a sostituire una presa diretta evidentemente problematica, tremolii ed “errori tecnici” di movimenti non perfettamente fluidi o di lievi incertezze sul fuoco esasperati e trasformati in merito linguistico, in “veridicità” della finzione. Senza paura di lambire i confini del kitsch (si veda la sequenza del combattimento con la spada, non certo la più riuscita del film) perché non è né deve essere la perfezione formale il punto, ma l’originalità, la capacità di arrangiarsi, lo spirito di collaborazione, e ancor di più il profondo rispetto che il regista mostra nei confronti di una cultura per la cui difesa e diffusione da sempre combatte.
L'(apparente) amatorialità diventa un valore aggiunto, che parte dal bassissimo costo di realizzazione per ragionare sulla forma e per configurarsi in un qualcosa che è costantemente qualcos’altro, fra cinema e folklore, fra recitare e recitarsi, fra antropologia e appartenenza a un luogo nei suoi sogni e nei suoi incubi, siano questi onirici oppure reali, palpabili, fisici. L’obiettivo di Zerzura è quello di giungere a un’astrazione del Sahara in cui mettere in scena, fra misticismo e tradizione, gli assunti del regista viaggiatore e studioso sulla popolazione che lo abita, e mentre i jinna sfrecciano rapidi Christopher Kirkley inanella suggestioni e accresce la tensione con le soggettive, con la perfetta simmetria delle più antiche costruzioni, con le piramidi a gradoni, con le foglie immobili nella bonaccia del caldo più torrido, con i contrasti dei colori, sul fuoco, con il miraggio, con le luci nella notte, con una messa in scena che al posto della soluzione diretta e costosa cerca piuttosto la perifrasi artigianale, appassionata, collettiva, profondamente radicata negli usi e nei costumi e al contempo originale, affascinante e potente nella realizzazione. Ci sono labirinti nel deserto, ci sono incontri, scontri, nuvole e verticalità umana nel paesaggio orizzontale, ci sono scalinate infinite e nottate passate in terre infestate e maledette. Ci sono cadaveri ricoperti dalla sabbia, ci sono tempeste che quasi sembrano una nebbia, ci sono i passi verso l’orizzonte, c’è la ricerca disperata di un po’ d’ombra, c’è il the più tradizionale nei bar con i muri scrostati, ci sono inaspettati passaggi in cammello, ci sono cespugli secchi, e c’è un progressivo allontanarsi da ogni tipo di civiltà per giungere al contempo dalla natura più brulla ai manufatti architettonici, come se la finzione della ricerca di Zerzura – con tanto di titoli di coda che ammoniscono lo spettatore a non mettersi alla ricerca di ciò che non esiste – fosse un reale vagare alla ricognizione di un luogo leggendario, e come se nella solitudine dei luoghi (in)abitati risiedesse tutta la solitudine dell’uomo che li cerca e attraversa.
Zerzura è una fiaba, Zerzura è un horror, Zerzura è un (melo)dramma di riunificazione familiare, Zerzura è una disperata ricerca di umanità laddove l’uomo nient’altro è che un puntino nella sabbia, Zerzura è un’incursione nel fantastico che scava nel folklore e nella sua intimità mistica, Zerzura è un ben preciso, ragionato e potente studio antropologico e culturale sui tuareg, sul Niger, su Agadez, sul Sahara. Zerzura sono gli occhi del protagonista, sempre vispi anche quando il resto del volto è coperto per ripararsi dalle intemperie desertiche, Zerzura è passione cinefila e ossessione socioculturale, viva e bruciante, etica e popolare. E, nel frattempo, Zerzura è consapevole (falso) B-movie, Zerzura è sperimentazione narrativa e linguistica, Zerzura è un discorso compiuto sul cinema e sulle sue (im)perfezioni nelle commistioni di genere e di atmosfere. È la storia più antica del mondo, il viaggio di un eroe solitario verso una terra/missione con tanto di aiutanti magici – l’uomo misterioso al pozzo che regalerà la spada ad Ahmouhdou per poi sparire nel nulla, lo stregone che gli spiegherà le regole del gioco, quella stessa spada che, alla stregua di un vero e proprio personaggio animato, gli salverà la vita e sconfiggerà il potente nemico –, messa in scena però fra citazioni e interstizi linguistici (post)moderni, in un costante rincorrersi di presente e passato. Dagli sfuggenti e inafferrabili spiriti malvagi, così lontani dal servizievole e “buono” genio della lampada nei quali la cultura popolare finirà per evolverli, alla siccità che, oggi come ieri, falcidia il bestiame e condanna gli uomini alla sofferenza e al bisogno di cercare acqua, spostamenti, fortuna, emigrazioni o per lo meno la propria identità, Zerzura cerca e trova un punto di sintesi fra paura e speranza, fra sogno e leggenda, fra Africa e Occidente, fra tradizione orale e settima arte.
Perché Zerzura è soprattutto un viaggio nelle suggestioni, magnetico e misterioso, a tratti ipnotico, giocato, prima ancora che sul confine fra realtà e finzione, su quello fra magia e allucinazione, fra mistero e miraggio. Che poi è a sua volta un’ulteriore riflessione sul rapporto fra l’uomo e la (non) natura del deserto, fra la mente e lo spazio, fra la solitudine e il luogo in cui si è soli. Possono essere realmente i jinna della più antica tradizione preislamica, i cercatori d’oro, i banditi e i migranti ciò che il protagonista incontra nel corso del suo lungo e periglioso viaggio, ma possono anche essere più semplicemente proiezioni della sua mente e della sua sete, del suo essere un semplice essere umano di fronte al più inospitale infinito, così lontano dal pozzo, così lontano dalla stabilità, così lontano dalla realizzazione e dalla tranquillità. Eppure Ahmouhdou parte alla ricerca di Zerzura, quell’oasi su cui regna «un jinn dal cuore d’oro» e alla quale solo i più valorosi possono giungere dopo giorni di cammino fra i pericoli più “strani”, non per le ricchezze e la felicità che il riuscire a raggiungerla comporta, ma più semplicemente per riportare a casa suo fratello, Boutali, sparito tempo prima nel dolore di una madre che ora non vuole nemmeno più sentirlo nominare per non riaprire una ferita mai rimarginata.
In fondo è una ricerca dell’unità familiare, ciò che crepita sotto Zerzura, è quell’appartenenza primigenia nella quale l’uomo quasi si fonde con la sua terra attraversandone luoghi e credenze, peculiarità e tradizioni, fisicità e astrazioni. Il viaggio (“western acido sahariano”, come definito dallo stesso titolo del crowdfunding grazie al quale è stata realizzata la post-produzione del film) di Ahmouhdou passa per lande desolate e mercati, per incontri musicali e nottate vicino al fuoco, per stregoni e cammelli, per creature leggendarie e aggressori, per capre e banditi, per specchi d’acqua destinati a sparire e uomini sospesi fra la disperazione e il ritrovarsi ormai pazzi, accecati dalla propria cupidigia. Ed è proprio nel colpire metaforicamente le ricchezze, «il cuore d’oro» che, un po’ come le coppe incastonate che stanno intorno al Sacro Graal in Indiana Jones e l’ultima crociata, vengono offerte a chi deve imparare a rifiutarle e anzi aggredirle, che il protagonista ritroverà definitivamente l’umano, il proprio fratello e la propria consapevolezza. Non bisognerebbe mai inseguire «il ladro di bambini» perché «si finisce solo per perdersi nella natura», ma Ahmouhdou invece lo segue, lo cerca, lo trova e lo sconfigge con la magia della spada, ma soprattutto con la forza del sentimento e con la ragione dell’uomo. Ciò che ci tiene in vita nella notte, quando i pericoli arrivano da ogni parte, ma la missione – umana, sociale, antropologica, cinematografica – è troppo importante e giusta per abbandonarla.
Marco Romagna