ZERO DAYS (2016), di Alex Gibney
Può una chiavetta USB uccidere come e più di una bomba atomica? Nell’approcciarsi a Zero Days, nuovo lavoro del prolifico documentarista newyorchese Alex Gibney già in concorso alla Berlinale 2016 e adesso ripresentato (con mai così fondamentali sottotitoli italiani) al Biografilm Festival di Bologna, è impossibile non partire dall’ultimo e splendido thriller firmato lo scorso anno da Micheal Mann, Blackhat, del quale Zero Days si pone come una sorta di controcampo “reale”. Siamo ormai definitivamente nel mondo cyber, quasi tutto viene controllato dai computer: traffico aereo e ferroviario, centrali nucleari, semafori, persino buona parte della gestione di un ospedale dipende dai macchinari. E poi c’è stato, come una bomba a orologeria, il caso del malware Stuxnet a rimettere tutto in discussione: un virus informatico può uccidere le persone mentre il computer segnala che tutto va bene, può in potenza far cadere e scontrare i mezzi di trasporto, può in potenza provocare, al di là dei sabotaggi, veri e propri olocausti nucleari. Il caso Stuxnet è stato la fonte di ispirazione dalla quale Mann ha fatto scaturire – a partire dal geniale incipit capace di racchiudere tutta la potenza e pericolosità della rete – la finzione dei terroristi informatici di Blackhat e della spy-hacker story per combatterli, il caso Stuxnet è oggi il puro oggetto di indagine per Alex Gibney, ancora dietro alla macchina da presa dopo aver sviscerato, rimanendo solo agli ultimi anni, Lance Armstrong, Steve Jobs, Scientology e Frank Sinatra. E Zero Days, a ricordare ancora Mann, nelle forme del documentario mantiene pure buona parte di quelle del thriller, indagando l’intero mondo cyber e le stanze più oscure della CIA e della NSA fra interviste frontali, ricostruzioni in computer grafica a cavallo fra, appunto, Blackhat e Matrix, immagini d’archivio e l’efficace gestione emotiva di una colonna sonora in gran parte noise ed elettronica – azzeccata scelta linguistica quanto, visto l’argomento, filologica.
Ma andiamo per ordine: era il 2006, quando l’amministrazione Bush decise, in combutta con Israele, di boicottare la centrale nucleare iraniana di Natanz nella quale lo Stato mediorientale arricchiva l’uranio nelle sue turbine. Non era possibile per gli Stati Uniti, già scottati dai buchi nell’acqua in Afghanistan e Iraq, iniziare una nuova guerra, e quindi ecco l’idea: creare un malware informatico progettato per agire autonomamente con il quale infettare la centrale in modo da renderla inefficace e instabile. Alex Gibney, al di là del fatto che un Iran con la bomba atomica – come qualsiasi altro Paese con la bomba atomica – non farebbe piacere a nessuno, non ha paura di attaccare apertamente la politica statunitense e uno dei suoi maggiori complotti recenti, non ha paura di alimentare uno scandalo, non ha paura di puntare il dito su quella che a tutti gli effetti è stata una guerra mai dichiarata all’Iran, una guerra subdola, informatica, scoperta solo per il troppo zelo di un governo israeliano complice degli USA che ha reso Stuxnet ancora più aggressivo fino a farlo diffondere e scoprire in Bielorussia. Paradossale poi come, una volta scoperto, il malware sia stato analizzato e sia nato lo scandalo proprio in quegli Stati Uniti che in gran segreto lo avevano pazientemente creato, ma le contraddizioni americane sono anche questo. Gibney, nella sua invettiva politica, non si limita al semplice attacco ai repubblicani: la prima versione di Stuxnet aveva anche una sorta di data di scadenza oltre la quale avrebbe smesso di funzionare, fissata pochi giorni prima dell’insediamento di un Obama che ha in gran segreto ma evidentemente, mentre parlava di pace universale, ratificato nuovi accordi che permettevano all’attacco di andare avanti. Sullo schermo appare la faccia più ipocrita dell’America: le contraddizioni della Stanza Ovale e del Pentagono, la natura manipolatoria dei discorsi ufficiali.
Gli Zero Days sono vulnerabilità nei programmi non note, con le quali i cracker riescono a penetrare abusivamente nei sistemi e prenderne il totale controllo senza essere scoperti. Sono estremamente rari, estremamente complessi, estremamente pericolosi. E mai era capitato che nel codice di un singolo malware ce ne fossero addirittura quattro. Alex Gibney costruisce il film fra interviste a esponenti di spicco della CIA, dell’NSA e dei Servizi iraniani, rievoca Edward Snowden e parte delle rivelazioni che già furono oggetto di Citizenfour di Laura Poitras, interviene con animazioni a spiegare i non pochi quanto inevitabili tecnicismi incontrati nel discorso, cerca sviluppatori di antivirus e fughe di notizie, interviene in prima persona a sottolineare attese e risposte evasive, costruisce un documentario sui “non posso parlare di questo argomento” che è al contempo politico e divulgativo, forte di una gestione della tensione degna di una classica spy story hollywoodiana. Anche a costo di ricorrere, e questo è il motivo per il quale il film è stato da più parti attaccato e accusato di manipolare parte della realtà e di usare elementi posticci, a un’attrice digitalizzata per affiancare alle interviste una sorta di collage di testimonianze fugaci che avrebbero detto ad Alex Gibney ciò che sapevano, ma solo a telecamere spente e in forma rigorosamente anonima. Un appunto non certo campato per aria, anzi per buona parte condivisibile vista la natura “di finzione” dell’inganno, ma a volte il fine giustifica i mezzi, e la fondatezza delle teorie a collegare fatti storici comprovati, nel momento in cui le ammissioni ufficiali e le verità processuali non ci saranno mai, rimane secondo noi ai limiti dell’inattaccabile: Stuxnet c’è stato, ha registrato i dati della centrale per una settimana e poi è intervenuto sulle turbine continuando a mostrare sui monitor i dati della centrale perfettamente funzionante. Si sa grossomodo chi lo ha progettato, si sa esattamente come ha agito, si sa come è stato scoperto, fra ammissioni e mezze verità: Stuxnet è un fatto, che Alex Gibney ha cercato di ricostruire da narratore solido e spettacolare, dando vita a un film documentario estremamente interessante, intrigante e squisitamente cinematografico nel partire dagli antivurus per poi tornare indietro. Zero Days apre a riflessioni della natura più disparata su una fantascienza che è ormai realtà e sulle nuove guerre, racconta come si superano le barriere informatiche, ricostruisce gli interventi umani, ipotizza possibili scenari passati, presenti e futuri, mette in luce comportamenti ben poco etici di governi e agenzie, impone una presa di coscienza ulteriore sui rischi dell’informatizzazione. Dallo Scià a Obama, dal tragico immobilismo fra Israele e Stati arabi alla vulnerabilità dei sistemi informatici, da Bush a Netanyahu. Perché una chiavetta USB, o ancor peggio un file invisibile di pochi byte, può uccidere come e più di una bomba atomica, ma tutti noi la stiamo sottovalutando solo perché è piccola.
Marco Romagna