ZEDER (1983), di Pupi Avati

Con Zeder (1983), riportato su grande schermo con una magnifica stampa 35mm d’epoca dal Trieste Science+Fiction Festival 2018 nell’ambito dei suoi sempre preziosi sguardi retrospettivi sul cinema di genere, l’horror padano del Pupi Avati di La casa dalle finestre che ridono (1976) fa innanzitutto un salto più deciso verso il sovrannaturale. Benché anche La casa… affondi le proprie radici in ancestrali tradizioni e credenze popolari, infatti, col successivo cimento in ambito di horror nostrano Avati va direttamente al cuore di uno dei filoni più ripercorsi dal cinema internazionale, ossia il ritorno dopo la morte, costeggiando figure zombesche alle quali tuttavia viene data una limitata e calcolatissima consistenza visiva. Le paure suscitate da Zeder sono soprattutto radicate nell’assenza fisica dell’orrore, perlopiù evocato come orizzonte narrativo tramite allusioni e parole – stesso meccanismo, a ben vedere, adottato anche ne La casa…, dove il dialogo dedicato alla rievocazione del passato assumeva una specifica inquietudine misterica. Sia pure fondati su territori narrativi decisamente distanti, sia La casa… sia Zeder adottano la medesima struttura: misteri che ritornano dal passato tramite forme diversificate di testimonianza, che siano un affresco da restaurare oppure un rotolino di macchina da scrivere che ha lasciato impresso un vecchio testo. La struttura dell’orrore si dipana così tramite un’indagine in memorie rimosse o falsificate, facendo lo slalom in mezzo a mistificazioni e contraffazioni testimoniali. Come si conviene spesso all’horror italico, l’indagine è condotta da un improvvisato detective, restauratore là, scrittore qui, in altri autori magari musicista, che seguendo un ben preciso schema di convenzione narrativa fa più di quanto gli è richiesto, assumendosi il compito di scoprire scomode verità senza alcun’altra motivazione che la curiosa sete di sapere. Schema narrativo rintracciabile anche in molto Dario Argento e suoi epigoni, il detective improvvisato è in altre parole null’altro che un doppio dello spettatore, entrambi intenti a compiere un percorso di svelamento pressoché parallelo. A poco a poco, in Zeder come ne La casa… (ma ritroveremo le stesse coordinate anche nel tardo Il nascondiglio, 2007) si para davanti al protagonista uno scenario sempre più paranoide, dove in sostanza qualsiasi figura incontrata assume a poco a poco i connotati di partecipante a un complotto colossale dal quale nessuno rimane indenne. Tanto che il complotto finisce per sovrapporsi totalmente alla realtà, sempre meno leggibile, un muro compatto che si oppone a qualsiasi tentativo ermeneutico. E per entrambi i protagonisti delle due opere la conclusione è praticamente identica: uno scioglimento cinico e beffardo, che si chiude con un grido lacerato.

Sempre a tenere insieme questi cimenti di Pupi Avati col cinema di genere interviene anche la consueta disinvoltura italica nei confronti della logica narrativa. In Zeder ciò avviene con maggiore enfasi, tanto che spesso è difficile stabilire il confine tra buco di sceneggiatura e impenetrabilità del mistero. Messa in termini più immediati, Zeder richiede un’altissima sospensione dell’incredulità, a cominciare dallo stesso innesco della detection: il ritrovamento del rotolino nella macchina da scrivere è infatti un machiavello tanto intrigante e inquietante quanto follemente incredibile. Certo, a salvare il film dalla risata che seppellisce (e in questo caso mai espressione fu più appropriata) contribuisce la premessa misterica, in nome della quale si possono accettare tutti i colpi di vento della sceneggiatura. Nello srotolarsi del racconto le incoerenze e le facilonerie si ammonticchiano passo dopo passo, seguendo una consueta costruzione per accumulo, e si deve passar sopra a numerose coincidenze e incontri miracolosi tra protagonisti e “congiurati”. Ma come per molto cinema di genere italiano, anche per Zeder resta predominante il puro piacere del consumo, che trascura volentieri gli schiaffi dello script alla logica se il film adotta un efficace senso del mistero e squaderna sequenze di suspense ben realizzate. Pupi Avati mostra infatti di sapersi destreggiare assai bene con l’evocazione di atmosfere, sfruttamento espressivo delle location (la villa dell’esordio) ed effetti semplici ed efficaci – quelle assi di legno che si spaccano da sotto… Tuttavia vi è una semplice verità che divarica la riuscita di Zeder da quella de La casa…: il soggetto di Zeder è meno interessante, forse anche meno ispirato e genuino, poiché abbandona in parte il sostrato di credenza popolare in favore di un’idea di horror appena più internazionale. Pupi Avati conserva l’ambientazione padana e la mette a frutto come nel film precedente (anche qui si riappalesano i mostri provinciali, figure tarate dall’isolamento sociale: il benzinaio, il vecchio testimone…), e d’altronde anche il tema del ritorno dopo la morte fa parte a sua volta di un solido assetto di leggende raccontate come tetra fiaba della mezzanotte. Tuttavia stavolta il complotto si espande, Zeder è un apolide, i suoi seguaci che perpetuano gli esperimenti sui terreni K si muovono tra la Francia e la Romagna, e più in generale si abbandona la sozza psicopatologia provinciale de La casa… in favore di un’idea di esperimento sovrannaturale che scarta dal confine geografico e antropologico. Vi è anche un ulteriore dato modernista, assente nelle precedenti incursioni orrorifiche di Avati, che è tra le cose più originali di Zeder. Se ne La casa dalle finestre che ridono il mistero si legava a un’arte vecchia come l’uomo (la pittura, l’affresco), qui esso trova un suo controcanto espressivo nel ruolo svolto dalle moderne attrezzature di ripresa audiovisiva a distanza. In qualche modo nel film di Avati i morti ritornanti sono vincolati a un sistema di videocamere che ne registrano la resurrezione, e una delle sequenze più riuscite, efficacemente “strusciata” tra horror e grottesco, vede proprio in prefinale la ripresa in monitor della ghignante rimessa in vita di don Luigi Costa. Alla sceneggiatura, come d’uso per questi cimenti di Avati col cinema di genere, troviamo anche stavolta la collaborazione di Maurizio Costanzo, e vista la rilevanza data in Zeder all’elemento catodico-elettronico (in senso lato, ovviamente) viene da supporre una gustosa riflessione del giornalista sull’onnipotenza del mezzo audiovisivo, capace (di fatto, e non troppo fantasiosamente) di perpetuare la vita dei corpi dopo il loro trapasso. Del resto, è questa un’ulteriore ossessione che tiene insieme due tessuti narrativi superficialmente distanti come quello di Zeder e de La casa…: storie di corpi che non vogliono saperne di morire definitivamente, conservati come cimeli e simulacri di un passato psicopatologico dal quale altrettanto patologicamente non ci si vuol separare, o realmente intenzionati a ritornare dall’oltretomba grazie ai miracolosi effetti dei “terreni K”.

Rispetto a La casa… vi è un ulteriore tratto di debolezza in Zeder: se La casa… si avvaleva di un’espressività audio-video profondamente radicata nella ruspanteria anni Settanta, di contro Zeder appare più anodino e ripulito, adagiato su un’andatura para-televisiva che sfugge ai purulenti ed entusiasmanti colpi bassi del film precedente. Sono passati appena sette anni, ma probabilmente gli anni Ottanta iniziano a farsi sentire anche nello stile di Avati – d’altra parte tra i produttori di Zeder figura la Rai, benché adesso sia pressoché inimmaginabile l’attuale televisione di stato alle prese con la scelta coraggiosa di finanziare un dirompente film di genere. A fronte di tutto questo, Pupi Avati trova però nella seconda parte del film una location che da sola costituisce ragione espressiva: quella colonia abbandonata sulle rive del mare, mostro architettonico che evoca inquietanti interrogativi al solo suo apparire. A ben vedere, anche quella colonia è un morto che non vuol morire, un desertico cimelio di vite passate che si staglia all’orizzonte come un enigma impossibile da sciogliere. Si tratta della Colonia Varese, situata a Milano Marittima, costruita nel 1938 e abbandonata da decenni, dopo aver visto negli anni Sessanta un tentativo di restauro mai terminato – furono ripristinate proprio quelle rampe centrali e incrociate, fatte saltare dai tedeschi, che tanta inquietudine suscitano nel film di Avati. Al centro della sua struttura avveniristica si apre infatti un reticolo architettonico che ricorda tanto una gabbia quanto una prigione. È una struttura interamente in cemento armato, ideata su essenziali linee geometriche, una testimonianza del razionalismo architettonico della prima metà del Novecento e tuttora in piedi, difesa da tutele e vincoli malgrado qualche recente crollo. Pupi Avati la utilizza perlopiù come impenetrabile enigma ripreso da lontano, una sorta di castello kafkiano che attrae e spaventa. Concreta manifestazione del mistero, Zeder apre le sue pagine migliori al momento della sua apparizione, sfruttandone l’aspetto brutalmente fantasmatico, gigantesca emersione di un passato che letteralmente risorge dalla terra – l’edificio lì è piantato.
Per cui sì, Zeder non è l’horror migliore di Pupi Avati, ma resta comunque intatta la capacità dell’autore bolognese di creare atmosfere, utilizzando spesso i dati della realtà senza alcuna deformazione profilmica. Per imbattersi col mistero e con le sue inquietanti conformazioni è sufficiente guardarsi intorno, interrogare il passato, anche nelle pure e semplici antropomorfizzazioni condotte sul paesaggio naturale. E per fare paura non è necessario mostrare morti e corpi straziati. È sufficiente evocarli, magari con l’ausilio di un commento musicale tagliente e incalzante come quello che Riz Ortolani qui sfodera. Si tratta di un cinema con un’idea sanamente ingenua di spavento, che si colloca all’altezza percettiva quasi di un bambino, alle prese con le prime scoperte del mistero e dell’irrazionale. Ed è interessante che, a un occhio ormai decisamente smaliziato come quello odierno in fatto di horror, tali forme rudimentali di spavento risultino anche più efficaci del cinema attuale. Forse perché questo cinema parla di paure primordiali, le più basiche e le più universali. Un orrore che parla al bambino nascosto in noi, a ciò che siamo stati, e che irrompe in un quotidiano anche un po’ sciatto e squallido. Per questo, forse, è così efficace.

Massimiliano Schiavoni