ZANKA CONTACT (2020), di Ismaël El Iraki
I due lati del dolore. Lo “Zanka Contact”, in questa strana storia di perdizione e resurrezione, è il contatto che ti toglie e ti ridà la vita. Lazzaro e Maddalena sono qui una ex-rockstar eroinomane e una formosa prostituta, Gerusalemme è Casablanca e la Terra Promessa Essaouira, in un’ascesa dagli inferi che ha sapore di rivincita e di Marocco. A unirli è il destino, per non dire un Dio citato invece come avversario già da subito, quasi per scherzo o per barzelletta. La stessa che apre il film («Una puttana e un taxista si schiantano e vanno in paradiso»), e che si realizza in parte realmente poco dopo. Gli outsider Larsen Snake e Rajae, la strepitosa Khansa Batma che quest’anno si è aggiudicata il Premio Orizzonti per la miglior interpretazione femminile a Venezia77, ci vengono presentati in apertura nei minuti immediatamente precedenti al loro incontro-scontro, e si schianteranno nei rispettivi taxi. Aggressiva, truccata e ribelle lei; disarmato, ironico e di pitone vestito lui. Non sono altro che due disperati, in fuga da qualcosa senza ancora sapere di esserlo. O meglio, se Larsen sta fisicamente scappando da debiti e minacce per approdare in una Casablanca underground, Rajae sta fuggendo da se stessa per accettare un destino che non le si confà, ma a cui si adatta. La vera fuga verrà cercata faticosamente e coronata insieme alla fine del film, porto ultimo di un amore a lieto fine fatto di musica e salvezza reciproca, che come sempre costa qualche sfortunata morte. Per raggiungerlo i due dovranno affrontare delle prove, comprendere di chi fidarsi, inseguiti dall’ambigua e musicofila figura del pappone Said, a metà tra nemico e amico, e da un picchiatore seriale che qui appare come uno stereotipato mastino tutto muscoli, cattiveria e risate sardoniche.
L’attacco del film è prepotente, energico e rabbioso, con toni che ritroveremo in tutto l’arco della narrazione, anche se via via meno efficaci. Il potente sottofondo musicale dal diegetico si sposta in continuazione all’extradiegetico ed è vero coprotagonista dell’opera, che in fondo racconta di come solo l’arte, qui nella sua veste musicale, e l’amore possano salvare gli spiriti perduti. Si può intuire d’altronde fin dalla prima scena che due passati parimenti oscuri e traumatici si uniranno in un presente più luminoso. Seguendo un pattern già visto e rivisto di incidente scatenante in questo caso letterale, avvicinamento, alti e bassi, ostacoli, vittorie, errori, fuga e redenzione finale, Zanka Contact mescola insieme più generi, dal gangster movie, al road movie fino al western italiano, da Sergio Leone al primo Tarantino, colorandoli della conosciuta combo sesso (in realtà poco) droga & rock ‘n roll, quest’ultimo nella sua versione marocchina degli anni ’70 e sperimentale più recente. Ma è di fatto un melò, con tutte le caratteristiche del genere che rendono prevedibile ogni mossa. A dare un valore aggiunto all’opera è il continuo sguardo a chi della giacca di pitone ha fatto un’icona: David Lynch. Zanka Contact è un banale, imperfetto e godibilissimo Wild at Heart marocchino, che non promette grandi cose ma mantiene quello che promette. Dall’inizio alla fine si sa quello che accadrà, ma si vuole comunque vederlo accadere. Perché chissà come verranno fuori questi Lula e Sailor del 2020, in una Casablanca più moderna di quella resa celebre nel 1942 dalle note interrotte di As Time Goes By, ma ancora teatro di amori impossibili e ostacolati dalla brutalità umana. In questa città popolata da «vergini da sposare e puttane da deflorare» Rajae rientra nella seconda categoria da quando uno stupro la rende “disonorata” agli occhi dei fratelli, violenza che la associa sempre di più al personaggio interpretato da Laura Dern, anch’essa vittima di abusi dall’adolescenza («I thought you told me your Uncle Pooch raped you when you were thirteen»). Alle spalle di entrambe, dunque, la presenza di una famiglia distruttiva: inverosimilmente inquietante quella lynchiana (una madre che diventa “strega cattiva dell’est”) e purtroppo verosimilmente inquietante quella della giovane prostituta, indirizzata alla strada dagli stessi parenti. Ed ecco che la fuga delle due moderne e rockettare versioni di Romeo e Giulietta inizia a prendere dei toni simili. Se le associazioni tra le due donne sono tante, quelle tra i due uomini lo sono ancor di più: dall’abbigliamento (che Nicholas Cage definisce «Symbol of my individuality and my belief in personal freedom») alla vita ormai da reietti sociali che vede Sailor entrare e uscire di prigione e Larsen occuparsi ormai di «import-export: importo eroina nelle mie vene ed esporto vomito per la strada». È soprattutto il rapporto con la musica ad accomunarli. Se per Sailor è la forma più nobile di comunicazione al punto da usare le parole di Elvis per dedicare il suo amore e Lula (memorabile il Love me tender del finale cantato sui tetti delle macchine), per Larsen è in un primo momento dolore e impossibilità, da quando il passato di droga ha rovinato la sua gola. Ma tramite le corde della sua chitarra e quelle vocali di lei riuscirà a trovare di nuovo voce, in uno scambio comunicativo questo sì potente che sancirà l’unione con Rajae.
È la musica dunque il vero valore aggiunto di un’opera che a tratti traballa per una sceneggiatura un po’ insicura, ma che si salva nel finale grazie all’energia di una canzone che sarà davvero la salvezza dei due, non solo spirituale ma anche letterale: solo dopo averla ascoltata Said deciderà di lasciarli in pace e porre fine alla scia delle morti ingiuste. Non parliamo solo di uno scheletro musicale o di una colonna sonora, ma quasi di una nuova forma di “musical”, in cui l’obiettivo del regista è «de mettre de l’acting dans la musique e de la musique dans l’acting», e che porta lo stesso el Iraki ad affermare «c’est la musique qui a écrit le film». Il risultato è un cocktail unico di note, azione, violenza e sentimenti, in uno stile narrativo tipicamente postmoderno che unisce momenti sublimi, visionari, volgari, brutali, dolci e umoristici. Così come il Marocco che le dà i natali è storicamente da sempre un “melange” di sfumature e culture diverse (ebrei, berberi, africani, musulmani, colonizzatori francesi, colonizzatori romani ecc…), Zanka Contact è più cose insieme, è il «whisky dentro il tè alla menta». Ma è soprattutto due opposti. Violenza e tenerezza, amore e odio. È i due lati del dolore: quello della rissa da strada (il “contatto di Zanka”, che nello slang è il contatto dell’acciaio del picchiatore con la faccia della vittima), che ti abbassa e ti mortifica, e quello del titolo della canzone finale dei due (che sentiamo dalla radio nella scena di chiusura), in grado invece di innalzare e liberare. Senza il dolore passato dei due protagonisti, questa bellezza catartica non sarebbe stata possibile. Forse può essere un modo per accettare il male che viene, che si può sempre trasformare in bene.
Ismaël el Iraki definisce il suo film un incendio incontrollato, e in effetti si manifesta come tale. Pure un po’ troppo incontrollato, dirompe disordinato nella sua imperfezione esagerata e goffa, ma comunque adorabile. Prende letteralmente fuoco, insistendo su un elemento che di nuovo testimonia la venerazione del cineasta marocchino non solo verso Wild at Heart e i suoi grandi e piccoli incendi costanti (dalle sigarette alle case), ma più in generale verso quel visionario regista del Montana che del fuoco ha fatto un’ossessione. Qui l’incendio è simbolo di violenza ma anche di purificazione, infligge morti atroci ma permette anche ai due di fuggire e di trovare nuova vita nella reciprocità e nella possibilità dell’arte, che si realizza in un finale di melodramma leggero. Una voce alla radio, una canzone: Zanka Contact, dolore e rinascita. Il regista espande gli orizzonti tematici di un cinema africano che troppo spesso è relegato al ruolo, pure nobile, di cronaca politica e di denuncia, e lo fa incuriosendoci, intenerendoci e facendoci sognare, senza troppe pretese. Un cinema capace di trarre la sua magia dalla sola emozione. Un ottimo tentativo.
Bianca Montanaro