Shin’ya Tsukamoto, autore giapponese di culto che in ogni suo film è solitamente anche produttore, sceneggiatore, DoP, montatore, attore, scenografo e addetto agli effetti speciali, era in concorso proprio a Venezia anche nel 2014, con il precedente Nobi, il più disturbante e violento dei suoi film, una rilettura sui generis del romanzo La guerra del soldato Tamura (1951) di Shōhei Ōoka, dal quale già era stato tratto Fuochi nella pianura (1959) di Kon Ichikawa. La versione di Tsukamoto del racconto d’orrore bellico di Ōoka è composta da un’alternanza di registri struggente, che costruisce un’epopea tragica e infernale in cui verso la conclusione la via di fuga sembra essere irraggiungibile: dopo la fine del conflitto, il fuoco torna nei ricordi e diventa materiale, superando l’immaginazione e tornando flebile oltre un vetro, proiettato sul volto di un protagonista che è lo stesso Tsukamoto, come sempre nel contempo vittima e carnefice, autore e spettatore, preda e predatore, osservatore e osservato. Il fuoco con cui si conclude Nobi coincide con le fiamme con cui comincia il miglior film del concorso veneziano Zan, un ossimorico “fuoco amniotico” che forgia una spada, l’arma bianca per definizione – entrambi i film migliori del concorso dei rispettivi anni, entrambi finiti imperdonabilmente a bocca asciutta. Come l’unione tra ferri infiammati che fa cominciare il cinema nel prologo di Persona, così la nascita materica della spada, ritmata da suoni martellanti e rumorosissimi, fa iniziare Zan, un The Killing che potrebbe anche chiamarsi The act of killing o Breve film sull’uccidere, pensando a Oppenheimer o a Kieslowski: l’atto di uccidere è di per sé il nucleo del film, anche se rappresenta altro. Disabituati, a causa della durata fluviale di film come Nuestro Tiempo o Suspiria o l’ultimo di Florian Henckel Von Dommersmarck, gli spettatori di Venezia 75 si sono trovati subito immersi nel film di gran lunga più breve del concorso, che con la sua ora e 20 di durata porta il pubblico in un’avventura minimale che sembra durare il tempo di un colpo di spada. Cantore dell’alienazione nella metropoli e dell’autodistruzione dell’individuo rispetto alla macchina e all’arma, Tsukamoto qui abbandona gli ingranaggi del nichilismo della trilogia di Tetsuo e diventa più legato alla realtà, facendo un discorso analogo a quello di Nobi ma invece che sulla guerra (e sul film di guerra) lo fa sul periodo Edo (e sui film di samurai). La macchina da presa non si fossilizza quasi mai, crea immagini ossessive e perpetuamente destabilizzate, e già dall’inizio segue, con il solito stile ipercinetico e inondante, la vampa di un fabbro invisibile che potrebbe essere Efesto, con un sound design spaventoso che quando stacca porta alla spada già creata. Come la pistola di Bullet Ballet, pistola singola e individuale che crea l’intero impianto narrativo, così in Zan c’è la spada, ma non è una singola spada quanto il concetto di spada, di oggetto d’azione. La trama di Zan gira principalmente attorno a quattro personaggi: Tsuzuki, la sua amata Yu, il di lei fratello Ichisuke e il personaggio interpretato da Tsukamoto, Sawamura.
Tsuzuki è un samurai che vive in campagna, non ha mai ucciso nessuno e per lavoro difende dai predoni una famiglia di contadini, i cui figli sono il giovane Ichisuke e la bella Yu, e abita con loro. Il figlio è un apprendista di Tsuzuki nell’arte della spada, e i due passano il tempo libero ad allenarsi nei campi. Con Yu c’è un rapporto intenso ma privo di dialogo: lei si prostra tra l’erba cercando di afferrare il cielo crepuscolare, lui si masturba silenziosamente dietro un capanno. La figura del samurai è già trasfigurata, la purezza dell’onore del simbolo del cinema ritorna già a un livello carnale, umanamente umile ed erotico, puramente entro la logica di Tsukamoto. L’atto autoerotico, eseguito di nascosto, caratterizza Tsuzuki come un debole a 360° in un mondo cinematografico che i generi ‘jidaigeki’ e ‘chambara’ hanno sempre caratterizzato come costituito da grandi animi e grandi spiriti coraggiosi entro corpi fragili e, di tanto in tanto, romantici. La verità è che Zan, come molte opere di Tsukamoto, è un film “piccolo” e spoglio, fatto con pochi soldi, due case, pochi attori e pochi effetti speciali nella pochezza della giungla. Tra i pregi che Tsukamoto rimarca in ogni suo sforzo filmico, uno dei principali è proprio la capacità di costruire un mondo coerente, coinvolgente e filosoficamente stratificato all’interno di una durata così minuta e di un budget così ristretto: questo è anche grazie al dinamismo dei movimenti di macchina e del montaggio (sia video che audio: sempre assordanti e potenti le musiche di Chu Ichikawa, solenne e violento il sound design), che si sposano perfettamente per creare un mondo concitato, in cui l’immagine segue le regole del sentimento e non viceversa. Alla base del conflitto, c’è sempre l’emozione, e l’emozione nel cinema è delineata attraverso le corrispondenze tra gli sguardi; qui si veda la prima apparizione di Sawamura, osservato durante un breve duello in cui sconfigge subito l’avversario tranciandogli in due la mano. Alla seconda apparizione, smette di essere osservato e diventa osservatore, guardando un allenamento di Tsuzuki e Ichisuke. Tsukamoto quando recita nei suoi film spesso si trasforma in prosopopea dello sguardo cinematografico, mettendosi in campo in tutte le possibili partizioni di quello che la macchina da presa implica. Già in A Snake of June c’era un conflitto, in cui prima il regista osservava per spiare e poi per espiare, usando i propri traumi per salvare una persona da un futuro terribile, in Kotoko spiava la protagonista e poi era visto da lei in televisione, e in Nobi osserva il fuoco. Conosciuti Tsuzuki e Ichisuke, Sawamura decide di invitarli entrambi con lui verso Edo per una missione ardua per difendere lo Shogun.
Questa missione è solo un McGuffin ma incompiuto, non una cosa veramente importante per circoscrivere una progressione narrativa. È come un cielo o un assoluto che viene osservato ma mai raggiunto, come le coccinelle dai colori rari che vengono viste dai protagonisti e immaginate mentre volano verso il cielo. Yu è un oggetto d’amore, ma è un amore impossibile: il samurai rimane legato al proprio essere masturbatorio, non riesce ad andare oltre l’autoriflessivo, e la sua donna lo respinge, lo accusa. Il nome Yu, che in Love Exposure si associava al “you” dello spettatore, qua si associa al “you” dell’altro in un rapporto tra due persone, l’affetto, anche quando è severo e disperato, critico e problematico: è di lei lo sguardo che segue ossessivamente il protagonista, creando una speranza nella ricerca, negli angoscianti e poetici titoli di coda. Tsukamoto dice che fa sempre lo stesso film con declinazioni diverse, rappresentazioni estetiche diverse. Zan è vicino a Nobi, per l’uso del digitale, per le dissolvenze, per l’intensità emotiva, i silenzi, l’ambientazione naturalistica e la violenza. Se è vero, come ha accennato a volte il regista, che la nascita di suo figlio (avvenuta dopo il premio Orizzonti per Kotoko) ha cambiato la sua filmografia, allora questi due film confermano un mutamento della sua tavola di valori: mentre i film precedenti trattavano persone che finiscono nella loro lotta interiore a raggiungere un apice psicosomatico di distruzione e autodistruzione (v. i climax della trilogia di Tetsuo, l’esplosione di furia del finale di Tokyo Fist, l’operazione fuori campo di A snake of June), Nobi e Zan raccontano il mito del debole immerso nel caos, l’anti-Odissea. Al centro non c’è più l’antieroe né l’eroe ma l’inetto – però l’inetto, in un mondo di mostri, è più umano e struggente sia dell’eroe che della sua nemesi. La nascita del figlio ha quindi comportato una ricostituzione dell’interno del cinema di Tsukamoto, con uno sguardo diversificato, come in un bildungsroman sull’apprensione dell’orrore; Tetsuo ha comunque uno sguardo iroso che nel suo sequel diventa disperato, e forse solo Bullet Ballet, tra i suoi capolavori precedenti, raccontava in maniera così precisa un percorso di uno sguardo quasi infante in mezzo all’orrore, con la distruzione che arriva improvvisa e che sconvolge qualcosa di altrimenti, almeno in superficie, stabile. Anzi, i protagonisti dei film precedenti dell’autore si trovano in situazioni di vita normali ma sono da subito complessi dall’interno, e ciò si riflette sull’mdp che comincia a muoversi caoticamente sin dall’inizio. Sia qua che in Nobi, in contesti di genere che richiamano la violenza a prescindere, l’inizio è regolare e dopo un po’ l’intreccio comincia a implodere, quando l’eroe non trova l’elisir e si confronta col caos della condizione umana. Qua una condizione maschile, fallica: sempre come con la pistola di Bullet Ballet, anche qui la spada è arma nel senso di oggetto azionato dall’uomo, e diventa estensione del membro e sua evoluzione diretta e plastica. Impugnare l’elsa significa masturbarsi, l’assassinio è la copula, l’uomo che osserva la spada e urla a se stesso «e con questa cosa devo fare?» si pone sia il problema dell’omicidio sia il problema dell’atto sessuale. Yu viene stuprata, e segue una sequenza con mille strati sensoriali, primi piani che durano giusto una manciata di fotogrammi, movimenti di mdp schizofrenici e confusi che però nel balletto del montaggio finiscono per avere una perfetta coerenza delineando uno scontro di una violenza inaudita. Da quel momento in poi, il film diventa un duello interno, un colpo di spada dilatato, un’altra ricerca della distruzione, tra carne e ferro, tra sangue e spirito.
Questo Zan appare dunque come film forgiato, qualcosa ancora di sottocutaneo (come anni fa enrico ghezzi descriveva il suo esercizio totalizzante del “fare” cinema) che trova il suo margine di esercizio nelle tracce del gesto specifico filmico (basti pensare all’estremizzazione del montaggio di quest’ultimo); un movimento interno che dalla fissità degli esordi giunge a una frammentazione dell’atto sempre legata all’ottica di scomposizione temporale dell’azione. Ma anche qui non si tratta di esercizio estetico, ma di appropriazione di un altro esser per se stessi (il doppio lacanniano?) da parte del protagonista il cui senso della propria vita è legato alla morte altrui. La macchina (e la sua conseguente mutazione) diventa così la ferita, un momento in cui si esplicita la possibile redenzione dell’io (sull’io stesso) attraverso sovrapposizioni visive ed ellissi che si soffermano sul ciò che sta per cambiare; il primo piano interrompe la grammatica del flusso, ne scompone la rarefazione creando lo squarcio del processo di comprensione di una realtà selvatica e scomposta. Da qui l’immagine, la sua tessitura immersiva, i suoi accostamenti vorticosi, quasi fluttuanti tanto da rendere la visione una specie di impressione di ciò che (non) si vede. Perché, come già successo per molti film di Tsukamoto, la mutazione fondamentale non è quella del protagonista ma piuttosto la visione stessa, ciò che resta nello schermo e che assume altre sembianze davanti ai nostri occhi. La possibilità di un cinema fatto di immagini nella sua purezza che sprofondi nell’atto del suo mutamento per una nuova rivelazione. Questo continuo parallelo tra forma è sostanza è quello che porta nietszchianamente al nuovo samurai, che uccide il maestro per poter esistere nella piena consapevolezza e facoltà della sua essenza; come una specie di apparizione, la costruzione filmica di una storia per immagini in cui ciò che è visto appare trasfigurato nel modo in cui lo guardiamo. Ecco perché sarebbe troppo semplice discutere sulla metafora pacifista, sul romanzo di formazione, sull’emancipazione dai propri fantasmi. Killing è un saggio di immagini che dentro loro stesse racchiudono il cinema, il suo desiderio e la sua ossessione, l’intensità di un mutamento che coinvolge uno stato ipersensoriale della coscienza. Dal colore abbagliante diurno alle opache chiaroscurali notturne, con una luminosità che digrada verso le tenebre della storia, nell’intuizione della coscienza, il colpo di spada fa calare il buio, lo stesso del legame col male di Velluto Blu, nel singolo istante dell’omicidio, perché la violenza è ormai entrata dentro di lui. Anche per questo Zan è un film da guardare, possibilmente in sala, legato all’atto ed alla esperienza, all’amore per lo sguardo. Lo definisce, splendidamente, la sequenza finale che si intravede mentre già scorrono i titoli di coda. Lo sguardo di lei, poi la macchina vaga nel bosco, si sposta in maniera tumultuosa e affannata mentre lentissimamente si va verso il nero. La ricerca continua come l’esperienza, si perde nel buio ed approda a un’altra dimensione dell’invisibile che solo possiamo immaginare. Un film raro, quanto le coccinelle a due punti – viste magnificamente in un sublime e rapidissimo cambio di fuoco – che resistono ad una società feroce, paurosa, drammatica. Proprio come la nostra.
Erik Negro e Nicola Settis