YUKINOJO HENGE – AN ACTOR’S REVENGE (1963), di Kon Ichikawa

Si alza il sipario, sul palcoscenico salgono gli attori. Sono gli anni Trenta dell’800, il Giappone ribolle d’arte, le parti femminili sono affidate, retaggio elisabettiano, a uomini. Jukitaro, come ogni sera ma per la prima volta a Edo, antico nome di Tokyo, sale sul palco. La sua recitazione esagitata, teatrale, emozionante, nel ruolo di una geisha. Il koto che spande voluttuoso le sue note tradizionali, i petali che, come neve candida, si posano leggeri sul legno del proscenio. Il silenzio, le luci, la concentrazione. Poi, lo sguardo di Jukitaro si alza verso i palchetti, dove scorge i tre uomini che aspettava da tutta la vita. Nella miniretrospettiva berlinese dedicata da Forum a Kon Ichikawa, è il turno di An Actor’s Revenge, fondamentale film del 1963 nel quale il maestro nipponico fonde Cinema, teatro e samurai: arte e cultura, dolore e guerra. L’ancestrale necessità di perseguire la giustizia, vendicando i propri genitori costretti a follia e suicidio, molti anni prima, dall’avarizia e dai tradimenti, in uno splendido e mai forzoso impianto metateatrale. Remake di un film del ’35, Ichikawa offre la doppia parte del protagonista a Kazuo Hasegawa, già protagonista negli stessi ruoli nella pellicola originale, per quella che fu la trecentesima interpretazione cinematografica del leggendario attore.

La vendetta, per l’attore Jukitaro, diventa il canovaccio teatrale stesso, l’obiettivo da perseguire, lo spettacolo che deve andare avanti nonostante tutto, calpestando se necessario i sentimenti, l’amore, persino la morte di innocenti. Jukitaro aveva sette anni quando sua madre si piantò un coltello nella gola. Jukitaro aveva sette anni quando suo padre, ormai reso folle da povertà e dolore, si impiccò ad una trave del soffitto. Jukitaro aveva sette anni quando gli imprenditori con i quali i suoi erano in affari tradirono e si arricchirono, incuranti delle vite umane, votati solo all’ingordigia. Jukitaro aveva sette anni quando lo adottò il capo della compagnia, che lo ha cresciuto amorevole, lo ha educato, lo ha addestrato in attesa di questo momento. Ora, molti anni dopo, l’odio covato per tutta la vita ha l’occasione di ergersi a vendetta. Si respira il senso di giustizia samurai, magistralmente esplicitato da un film che è allegoria ed agrodolce satira sociale, fondamentale trattato etnografico -a guisa di film di finzione ed addirittura ‘di genere’- su quei tempi, quei luoghi, quella mentalità. Al pari di Akira Kurosawa, Kon Ichikawa riesce a conciliare, negli abiti di uno stile filmico al solito impeccabile, le più antiche e radicate tradizioni nipponiche con le influenze western che stavano giungendo in gran numero da occidente. Il risultato è un film multiforme, fatto di azione e silenzi, spade ed innamoramenti, orgoglio e rimorso. Un film che è una dichiarazione d’amore nei confronti delle arti, verso il ruolo dell’attore, esaltazione della sua capacità di esprimersi. Un film nel quale la recitazione, nell’attuazione della vendetta, è ancor più importante dell’astuzia e della spada. Ma anche un film sulla costanza, sulla ragione di vita, sulla mentalità samurai, sull’accettazione del dolore per perseguire il disegno più grande, un film sulla giustizia. Un film agrodolce, sulla poetica del rispettoso e rituale harakiri.

Il Cinema si tuffa nel teatro, lo abbraccia, tende alla sua magia immutata nei secoli, mette da parte l’oggettività per lasciare spazio al sentimento. La carrellate laterali e i continui e forsennati cambi di ritmo sono trasposizione sullo schermo dell’emozione del palco, l’ampiezza quasi innaturale del cinemascope e la pungente saturazione dell’EastmanColor si mettono a disposizione della tradizione, il linguaggio cinematografico è al servizio delle luci della ribalta. Un film in costante e necessario overacting, sottolineato da una fotografia cangiante e memorabile, alla costante ricerca degli occhi. Continui e romantici cambi di luce che, a discapito della credibilità cinematografica, sottolineano emotivamente l’espressività, il ruolo dell’attore, la teatralità. Jukitaro, per attuare la sua vendetta, usa e sfrutta il teatro, i suoi stratagemmi, i suoi inganni di memoria quasi shakespeariana. Come smaccatamente teatrale è il personaggio del ladro gentiluomo, sorta di Robin Hood del Sol Levante interpretato anch’egli, in ambedue le versioni del film, da Kazuo Hasegawa: voce narrante, sardonico commentatore, poi insperato alleato.

L’innamoramento della figlia di uno degli uomini, innocente e sofferta vittima, nei confronti di Jukitaro è l’occasione per entrare nella casa. Fra ladri che origliano, banditi che intervengono, lotte e sguardi, intenzioni scoperte ed il koto che lascia spazio al jazz, Jukitaro va avanti in un difficile e astuto piano, fino all’apice di eleganza poetica nella resa dei conti. Poi ancora sul palco, per l’ultima recita. Cala il sipario, la vendetta è compiuta, è tempo di pensare, stare soli, rimpiangere, essere soddisfatti, dileguarsi lentamente in un campo di grano.

Marco Romagna