YOUTH (SPRING) (2023), di Wang Bing

Non è più tempo della lirica intrinseca nelle riunioni intorno al fuoco dei Ta’ang o dello straripante potere immaginifico con cui il grande documentarista cinese Wang Bing raccontava lo Yunnan rurale attraverso la vita delLe tre sorelle. Non è più tempo della purezza, della dolcezza e della dignità cristallina dei pazienti psichiatrici nelle condizioni disperate di Feng Ai, non è più il tempo dell’affetto e della commozione prima e dopo gli ultimi vagiti di Mrs. Fang, non è più il tempo (pure se più o meno negli stessi luoghi) dei rapporti straziati e violenti di Bitter Money, e non è più nemmeno il tempo delle interviste frontali con cui, in Dead Souls, Wang Bing riportava alla memoria le deportazioni dei controrivoluzionari degli anni Cinquanta. Questa volta il suo sguardo non può lasciare troppo spazio all’emotività né alla potenza espressiva, perché il principale punto dei fluviali duecentotredici minuti di Youth (Spring), in originale Qingchun, primo episodio di una personale trilogia ‘urbana’ e sulla working class presentato nel concorso principale di Cannes76 (che sempre di Wang Bing, fra pochi giorni, ospiterà come proiezione speciale anche la prima mondiale del breve Man in Black), sta proprio nella quasi totale intercambiabilità delle pedine del sistema, nelle loro storie sempre diverse eppure sempre uguali, nel loro effettivo andare e venire per sostituire ed essere sostituiti, nella loro piena consapevolezza di essere sfruttati ma anche di non poter fare a meno degli straordinari per arrivare a fine mese, e al contempo nella loro capacità di trovare sempre e comunque la strada per continuare a vivere la loro giovinezza, per giocare insieme, per litigare, per innamorarsi, per corteggiare, per sognare, per continuare a fare progetti di vita, per riuscire ancora di essere felici, per non abbandonare mai la speranza. Un film documentario corale, politicissimo e profondamente wisemaniano (con tanto di assemblee pseudo-sindacali, dove non esiste sindacato e la lotta di classe è stata ormai ingabbiata, in cui cercare disperatamente di lavorare un po’ meno e guadagnare qualcosa in più) che accende i fari sull’intera classe operaia cinese, formata da giovani che fra i 17 e i 20 anni scendono dalle native campagne intorno al Fiume Yangtze verso i più squallidi e luridi dormitori-formicaio della periferia industriale di Shanghai per lavorare a stagione nelle fabbriche tessili, in cui i pedinamenti della macchina a mano (in)visibile più tipica di Wang Bing (quando necessario anche di corsa, come già in Feng Ai di cui viene ripresa anche la sconfinata profondità delle porte lungo i corridoi) non possono concentrarsi sui singoli fino ad affezionarsi semplicemente perché lungo il corso dei cinque anni di riprese (dal 2014 al 2019), a parità di ruoli, sacrifici, problemi e aspirazioni, cambiano troppo spesso i loro nomi e i loro volti. Per trovare la verità attraverso le singole realtà di una classe sociale si può solo lavorare sul luogo e sulla dilatazione del tempo, sulla mappatura, sull’eterna e straniante ripetizione dei medesimi gesti e dei medesimi discorsi, sui ritmi di lavoro sempre più serrati del mosaico di persone sempre differenti, e sulla necessità del film di essere più che mai estenuante come unico modo per poter trascinare e fare immergere che racconta, per farlo vivere sullo schermo, per far provare la stessa oppressione ma anche per condividere le stesse risate dei momenti di riposo e di solidarietà.

È per questo che appare quasi un paradosso come nell’intercambiabilità principale spunto di interesse di Youth (Spring) si annidino in realtà anche le principali perplessità che ne accompagnano la visione. Non tanto per la solo relativa partecipazione emotiva, che può far rimpiangere i lavori più strazianti di Wang Bing ma che è inevitabile quando il punto del film è proprio come le identità dei soggetti filmati si susseguano e si sovrappongano fino quasi a confondersi nella sintesi di un’intera classe sociale, senza che l’occhio che li segue abbia la possibilità né il tempo materiale di seguire quello che sarà l’evolversi, lontano dal luogo che l’operazione vuole sviscerare, delle loro microstorie che almeno per un frammento vivono all’interno del film, quanto per come questo continuo spostarsi ondivago da una vita all’altra finisca alla lunga per lambire e introdurre, ma mai realmente affrontare, lasciando il retrogusto di una qualche occasione sprecata, una pletora potenzialmente infinita e multiforme di tematiche laterali, dalla lontananza da casa alla condizione femminile (il capo che chiede a una dipendente di interrompere una gravidanza, le difficoltà economiche in cui è impossibile sposarsi, ma anche la sostanziale parità dei sessi fra lavoratori e anzi la netta supremazia delle donne nei ritmi di lavoro, nel contrattare condizioni migliori e in generale nel farsi valere), dalla centralità della messaggistica sugli smartphone per abbattere i muri del tempo e delle distanze alle nottate passate a dormicchiare negli Internet cafè, dalla suddivisione interna anche del proletariato in sotto-classi sociali («Mio padre dice che se dovessi unirmi a un uomo più povero di noi perderemmo la faccia», ma anche la questione del cognome e dell’appartenenza familiare per i figli di coppie che non si possono ancora sposare) fino ai cumuli di spazzatura che si annidano in ogni angolo del dormitorio-comune in cui i ragazzi e le ragazze vivono fra turni nell’unico bagno del ballatoio e condizioni igieniche per lo meno precarie. Eppure, per quanto forse meno emozionante e indubbiamente meno coeso rispetto ai più conclamati capolavori dell’autore, e per quanto sia legittimo esprimere qualche dubbio di fronte a un’opera forse in definitiva realmente minore e con qualcosa meno perfettamente a fuoco all’interno di una filmografia così straordinaria, sarebbe scriteriato non considerare Youth (Spring) un lavoro quasi altrettanto urgente e prezioso, l’ennesima pennellata su un unico affresco ormai ultraventennale che si immerge nelle zone d’ombra di un Paese per cercare la luce dell’umano. Perché è anche questa volta una questione di condivisione, il cinema di Wang Bing. Una questione di fiducia, di confidenza, di etica dello sguardo, di urgenza del filmare, ma soprattutto di personale coinvolgimento, di saper rimanere accanto alle persone fino a farsi aprire le porte dell’anima, di lunghissimo tempo passato nella realtà e con i soggetti che il regista osserva e racconta chiedendo loro di essere semplicemente se stessi, mentre personalmente partecipa alla loro medesima vita. Come nei due momenti di Youth (Spring) in cui l’oggettività della macchina da presa viene meno, e un ragazzo rompe la quarta parete rivolgendosi direttamente a Wang per invitarlo a seguirlo all’interno della casa e della sua intimità, nella perfetta e totale sovrapposizione fra vivere e filmare di chi ormai viene sentito parte della stessa quotidianità, degli stessi momenti, della stessa grande famiglia. Anche quando si tratta di una famiglia mutevole, inevitabilmente destinata a un continuo ricambio dei suoi membri, ma non delle loro problematiche né della loro totale disponibilità ad aprirsi di fronte alla macchina da presa. Giovani ragazzi che si affacciano all’età adulta, ancora adolescenti nello status symbol dell’ultimo iPhone, nella timidezza con le ragazze più attraenti, negli scherzi e nelle torte in faccia, eppure già grandi e inappagati tanto nel lavoro meccanico e straniante quanto nel bisogno disperato di fare quadrare i conti, tanto nelle timide effusioni quanto nelle nottate passate sulle panche fra le macchine da cucire, tanto nella voglia di costruirsi una vita quanto nei gesti sempre uguali e forsennati per forgiare a tempo di record ogni singolo vestito. Chi taglia, chi cuce, chi deve correre per la consegna, chi finisce la propria parte e inizia subito ad aiutare il suo vicino, in una fabbrica tessile che è una catena di montaggio in cui a cambiare è solo la musica che passa alla radio, cappuccio dopo cappuccio, gamba di un pantalone dopo gamba di un pantalone, interno di pile dopo interno di pile. Rigorosamente a cottimo, per pochi centesimi al pezzo: quelli che servono per mettere via qualcosa, per una serata in taxi, per un ritorno a casa, al sole, all’erba, al fiume. Per costruire la propria identità, e per non smettere mai di vivere e di sorridere, nemmeno nelle peggiori condizioni lavorative e salariali. Per non rinnegare mai se stessi e la propria gioventù, le proprie aspirazioni, le proprie speranze sempre diverse, eppure sempre identiche. Consapevoli ingranaggi dell’ennesimo sistema capitalistico – poco cambia se privato oppure di Stato – che sfrutta e schiaccia i suoi dipendenti, ma soprattutto esseri umani con simili storie e simili sogni, capaci di fare buon viso a cattivo gioco, capaci di alleviare ogni dolore in una risata, capaci di unirsi e disunirsi, cercarsi, respingersi, aiutarsi, condividere. Vivere, e non semplicemente sopravvivere. Alla faccia di quell’ignorante pregiudizio occidentale che pensa in genere ai lavoratori della Cina alla stregua di inconsapevoli automi.

Marco Romagna