YOUTH (HARD TIMES) (2024), di Wang Bing

«In Cina non abbiamo diritti: a cosa ci servono i soldi?», si chiederà amaramente qualche operaio di fronte all’ennesimo mancato pagamento, fra le ripetute assemblee in cui cercare una linea di negoziazione comune e il racconto privato direttamente a Wang Bing degli abusi di polizia subiti in occasione di un vecchio arresto da innocente. Forse la frase-chiave di Youth (Hard times), secondo capitolo della trilogia sulla classe operaia contemporanea cinese che a poco più di un anno di distanza dalla presentazione a Cannes del primo episodio Youth (Spring), ritratto e mappatura a mosaico di un intero ceto sociale attraverso il continuo scambiarsi delle sue pedine e la capacità di ritagliarsi qualche momento di felicità nonostante tutto, giunge nel concorso principale del 77mo Festival di Locarno a mostrarne il momento della consapevolezza e della lotta, della ribellione – per quello che è possibile ribellarsi in un Paese dittatoriale, anzi in realtà molto più di quanto sia possibile – e della dignità, in attesa che fra un paio di settimane a Venezia il monumentale polittico del documentarista cinese si possa chiudere con il terzo e ultimo Youth (Homecoming), cronaca dei loro ritorni a casa fra un periodo e l’altro di cottimo in realtà già anticipati nel finale di questo Hard times. Un episodio mediano che, come uno staffettista, inizia raccogliendo il testimone del film precedente per poi tuffarsi alla fine della sua corsa in quello che sarà il successivo, bagnando con la testa e con la coda del fiume dei suoi 230 minuti (superiori ai 210’ di Spring, e di gran lunga più dei “soli” 152’ di Homecoming) entrambe le sponde del progetto che Wang Bing, ritornando in quelle fabbriche tessili nella provincia industriale di Shanghai già di Bitter money e scelta lavorativa pressoché obbligata per tanti giovani e giovanissimi sottoproletari provenienti da tutta la Cina, ha girato nel corso di cinque anni fra il 2014 e il 2019. Da una parte la rigorosa precisione nel delineare, attraverso una Babele di nomi e di volti quasi intercambiabili, un’intera generazione perfettamente consapevole di essere sfruttata ma che non può fare a meno di accettare i ritmi di lavoro più alienanti pur di avere quei pochi spiccioli a pezzo cucito, e dall’altra quel trasporto umano da sempre parte integrante dello sguardo unico e preziosissimo di Wang che, dopo essere stato (quasi) messo da parte nel filmare la massa necessariamente indistinta di Spring, torna a trovare il tempo e le circostanze per affezionarsi sinceramente alle persone che accettano di donare alla macchina a mano del regista un proprio brandello di vita, per camminare di nuovo al loro fianco condividendone giornate ed emozioni, per rimanere con loro quando il capo di una delle tante fabbriche che si affacciano sulla stessa strada scapperà con la cassa e gli operai decideranno di autogestirsi e poi di autoliquidarsi il dovuto vendendo le macchine da cucire e banchi da lavoro, oppure per iniziare a seguirli fino a chissà dove nel loro ritrovare i luoghi di appartenenza e gli affetti di famiglia. Proprio come ai tempi del cammino insieme ai Ta’ang, proprio come al capezzale di Mrs Fang, proprio come lungo i corridoi – così simili a quelli degli squallidi edifici dormitorio-bottega d(egl)i Youth – che disegnavano la mappa del manicomio di Feng Ai.

Ma si diceva della lotta. Quella, collettiva, di una classe operaia nata e cresciuta sotto regime, giovanissima nei suoi vent’anni (a volte nemmeno, a volte pochi di più), ma non per questo meno ferrata nella propria coscienza di classe. Chi progetta di sposarsi e chi invece mira semplicemente a una vita nuova e il più lontano possibile da quei bassifondi putridi come una discarica a cielo aperto, chi deve realmente cambiare il filo alla macchina e chi semplicemente sta cercando di sedurre la vicina di bancone, chi esegue movimenti con la precisione di un automa e chi per stanchezza fa un piccolo errore che rallenta tutta la linea, chi è in grado di cucire una manica, una tasca o un intero pantalone in pochi secondi e chi invece viene accusato di essere più veloce nelle chiacchiere che nel lavoro. Chi perde il proprio libretto dei pagamenti, e nemmeno con copie e fotografie riuscirà in alcun modo a ottenere quel salario che pure si era ampiamente guadagnato sotto gli occhi del direttore dello stabilimento. Tutti perfettamente consapevoli di quanto siano inaccettabili le condizioni lavorative a cui si devono sottoporre, tutti perfettamente consapevoli della provvisorietà della propria vita e del proprio lavoro, tutti perfettamente consapevoli di una frustrazione esistenziale e collettiva nella quale non si può più accettare passivamente ogni progressivo peggioramento e ogni imposizione di straordinario oltre turni già massacranti e infiniti, ma è giunto il momento di cominciare a strappare un qualche diritto, o per lo meno di pretendere il rispetto di quei pochissimi che dovrebbero essere garantiti e che invece vengono puntualmente disattesi e calpestati. Fino a far diventare quelle sporadiche assemblee sindacali di Youth (Spring), tanto sorprendenti in un Paese senza sindacati, la quasi quotidianità di questo bellissimo Youth (Hard times), così preciso e wisemaniano nell’osservarle con apparente discrezione quanto politico ed emotivo nel prenderne fino in fondo le parti senza paura di abbattere più volte la quarta parete, così programmaticamente corale nel continuare a delineare un’intera classe sociale attraverso la sua mappatura quanto umano e militante nel (ri)scoprire le identità individuali, le ragioni sociopolitiche e la purezza d’animo delle singole persone che la compongono. Per un cinema che, a partire dalle scritte in sovraimpressione con cui indicare nome ed età di chi appare, sembrerebbe aver deciso di seguire qualche regola cinematografica in più rispetto ai lavori più istintivi di Wang Bing, ma che in nessun modo nel suo evolversi ne appanna lo sguardo e la totale libertà nel filmare gli esseri umani a mano libera, fra pedinamenti e mobilità del quadro, fra vicendevoli condivisioni e rispettosa fiducia che progressivamente diventa il più sincero e reciproco affetto. Un cinema fatto del mangiare con gli operai protagonisti, del dormire con loro, del vivere con loro condividendo tempo e spazi. Del pensare con loro, del parlare con loro, del viaggiare con loro, del lottare giorno dopo giorno con loro, contro il tempo e contro le ingiustizie, contro la fame e contro il sistema. Fino a scioperare per un’intera settimana con loro, a guardare con loro il camioncino che porterà via i macchinari saldando finalmente almeno parte del loro credito, a soffrire il freddo insieme a loro quando il proprietario dei muri taglierà corrente e riscaldamento alla fabbrica occupata. A trovare, insieme a loro, quegli sparuti sprazzi di poesia che rendono più sopportabile e anzi dolcissimo perfino il grigiore della vita, fra il farsi spazio sotto un unico ombrello per andare via sotto la pioggia e il bambino che imbratta i muri a pennarello mentre la madre lavora alla macchina da cucire, fra quel padre forse mai così felice che riaccoglie in casa il figlio accendendo in pieno giorno la miccia di una batteria di fuochi d’artificio e la consapevolezza che, uniti e compatti per il bene comune, anche in una dittatura nel pieno del suo boom economico forse si può riuscire a tenere testa a quel mostro a più teste chiamato Capitalismo. L’importante è capire tutti la necessità di farlo insieme.

Marco Romagna