Youth, giovinezza. Quella giovinezza ormai perduta, quella giovinezza ormai impossibile, per i protagonisti sopraffatti dagli eventi e dal passare del tempo così come per una Cina ormai radicalmente cambiata, che nulla o quasi ha conservato di quegli anni sì di dittatura, repressioni e di conflitti, ma anche di condivisione e di speranze, di sorrisi e di delusioni, di amori e di cadute, sul ghiaccio come sul campo di battaglia. Il cineasta e attore cinese classe ’58 Feng Xiaogang, giunto al diciassettesimo lungometraggio come regista, ritorna con Youth alla propria giovinezza, agli anni della Rivoluzione Culturale, agli anni delle gigantografie di Mao e delle divisioni artistiche dell’esercito di cui fece parte più o meno all’età dei suoi protagonisti, agli anni di complicità e cameratismo nei quali seppure in divisa, fra solidarietà e bullismo, innamoramenti e imbarazzi, allenamenti e prove, musica e danza, la guerra e l’età adulta sembravano (ancora) così lontane. Arrivano al distaccamento insieme, l’aitante Liu Feng e la bella e insicura He Xiaoping. Lui è soldato e ballerino premuroso e gentile, lei è una nuova recluta giovane e ingenua alla quale l’esercito sta fornendo una sorta di possibilità di redenzione familiare dopo l’arresto di un padre ritenuto bisognoso di rieducazione. È il 1975 quando inizia la vicenda, e all’interno dei gruppi artistici dell’Esercito di Liberazione Popolare i ragazzi e le ragazze semplicemente vivono la propria gioventù e il proprio talento, comandati e militarizzati ma in un certo senso anche protetti dai superiori e dalla loro lontananza dal fronte. «Posso farmi la doccia tutti i giorni?» chiede una stupita He Xiaoping alla quale tutto pare una fiaba, ma la capacità di sorridere e sognare non nasconde i traumi passati, la mancanza di un padre al quale continuare a scrivere in attesa di una riabilitazione che non giungerà mai, la profonda insicurezza di chi si sente goffa e proprio per questo viene derisa e sottomessa da chi è più forte. L’adolescenza, del resto, è speranza, sogno e promessa, ma anche gelosia, inganno, fraintendimento, crudeltà. I numerosi e corali protagonisti la vivono nella sua interezza, nei suoi eccessi, nei suoi sbalzi, nei suoi dubbi, nei suoi pianti e nei suoi sorrisi, mentre la macchina da presa di Feng Xiagogang canta e danza insieme a loro, avvolgente e malinconica, solenne e intima. C’è la ballerina Xiao Suizi, voce narrante del film che ricalca la biografia della co-sceneggiatrice Yan Geling dalla divisione artistica al giornalismo sul fronte, c’è la direttrice della truppa sorta di figura-ponte verso l’età adulta dei ragazzi e delle ragazze, c’è la cantante Dingding perfettamente conscia della propria bellezza ma non sufficientemente smaliziata per usarla, c’è chi ha bisogno di denti forti per poter continuare a suonare la tromba e c’è la figlia di un dirigente del Partito, figura quasi contrapposta a quella di He Xiaoping dal padre rinnegato.
È un’elegia al tempo passato e perduto, la prima parte di Youth, fatta di canzoni e di bandiere rosse, fatta di interessi reciproci e di camerate da condividere, fatta delle prime incomprensioni e delle prime (in)sperate alleanze, fatta di pranzi in comune e di divisione dei compiti, fatta di litigi e di espiazioni. Ma il tempo, vero protagonista nella selva di protagonisti, già dall’anno successivo calerà la sua scure distruggendo ogni certezza e ogni stabilità. Nel settembre del ’76 moriva Mao Tse-Tung, e con lui moriva per sempre quella Cina. Feng Xiaogang mette in scena il commiato della guida della nazione con il doloroso nero del lutto che si sovrappone al rosso della gloria maoista fino a coprire la bandiera con la sua effigie, mentre i ragazzi e le ragazze della divisione artistica, così come il loro Paese, non potranno che iniziare a fare i conti con la propria provvisorietà. Sono semplici pedine da prendere e spostare ovunque ce ne sia bisogno, chi incontro alla morte sul fronte e chi in mezzo alla sofferenza di un ospedale da campo, chi a scrivere di ciò che accade in battaglia e chi, nel 1979, a perdere compagni e arti nella guerra sino-vietnamita, che Feng ricostruisce in un pianosequenza straordinario, voluttuoso, profondamente umano dalle farfalle alla disperazione, nuova e necessariamente paradossale danza in mezzo ai proiettili, al sangue, alle sabbie mobili, alle persone e alle loro lacrime. Per chi rimane nel gruppo artistico ci sono sempre meno occasioni da esibirsi e sempre più tristezza, fra la vecchia compagna ormai scema di guerra intravvista nel pubblico dei reduci e la sconfinata poetica del suo ritorno all’illusione della giovinezza sentendo la musica di un tempo e ritrovandosi, come mossa da un istinto interiore, a ballare da sola nel centro di un cortile. Ha visto in faccia la morte, il trauma, il dolore e l’amara consapevolezza di chi ha sedici anni e sa che non vedrà mai il diciassettesimo, conscio di avere perso non solo la vita ma anche la sua giovinezza, la sua freschezza, un’innocenza che mai tornerà. Il giovanissimo ricoverato, così come il commilitone che Liu Feng già privo del braccio destro non riesce a tirare fuori dalle sabbie mobili, morirà da eroe, ma cos’è l’eroismo di fronte a una vita spezzata? Cos’è l’eroismo di fronte alla consapevolezza di fare parte di una generazione fuggita via, bloccata, impossibilitata a rialzarsi ed essere protagonista? Gli anni continuano a passare, e la Cina si avvicina alle proteste e alle violente repressioni di piazza Tienanmen che nell’89, se non daranno proprio vita a un’altra rivoluzione, per lo meno apriranno gli occhi del mondo sulla mancanza di libertà e di diritti dei cittadini. Nel frattempo ci sarà lo scioglimento definitivo del gruppo artistico, ci saranno le lacrime di chi sa che, dopo tanti anni insieme, non si vedrà più, ma soprattutto ci sarà la grande resa, il rendersi conto di una giovinezza ormai fuggita, lontana, (non più) vissuta da una generazione marginale, bloccata fra due eventi giovanili vissuti senza realmente viverli e farne parte.
Youth, nei sedici anni del suo arco temporale che giungerà fino al 1991 e poi, per amore dei suoi protagonisti, eviterà di mostrare il loro definitivo sfiorire, è uno sguardo profondo e poetico sulla giovinezza che fugge, è una riflessione agrodolce e nostalgica verso quegli anni duri quanto frizzanti, è un pensiero politico che guarda indietro e torna al maoismo e all’instabilità, sconfitta di un’intera generazione, seguita alla sua fine. Efficace nella ricostruzione storica e in una narrazione che, lasciando il giusto spazio a ogni personaggio, magari a tratti rallenta ma mai perde le fila concettuali, l’ultima fatica di Feng Xiaogang presentata al 20mo Far East di Udine mette in scena ragazzi e ragazze perfettamente consci della fragilità provvisoria del loro (non) ruolo nel mondo, pronti a eseguire gli ordini e le più disparate mansioni loro assegnate, pronti a essere trasferiti da un momento all’altro dalla relativa tranquillità del palcoscenico al cuore della battaglia, pronti a esibirsi e a morire per la propria terra e per gli ideali marxisti sui quali la loro terra si fondava, ma soprattutto pronti a crescere fra traumi e dolori, formandosi come individui ognuno con il proprio passato e con le proprie ispirazioni, ognuno con la propria personalità e con la propria morale, ognuno con i propri errori e con i propri piccoli e grandi atti di eroismo, ma tutti, uno per uno, privati di parte dei loro anni migliori dalle circostanze, dalla caduta delle illusioni, da una Storia che a volte, cinica, decide di chiudere il sipario sul più bello della recita. Certo, nello scorrere dei 135 minuti abbondanti di cui si compone il malinconico e riflessivo Youth non mancano qua e là pennellate di retorica o di forse eccessivo patetismo – in testa l’unica lettera del padre inviata ormai in punto di morte a He Xiaoping, ma anche tutta l’ultima sezione post-Tienanmen che, al di là del finale poetico ma tutto sommato prevedibile con i due principali protagonisti che si ritrovano e si scoprono destinati, pur non sposandosi, a invecchiare insieme, nei fatti ben poco aggiunge a quanto si era già evinto nel corso delle quasi due ore precedenti –, ma il tutto è bilanciato dai numeri musicali e di danza, dal soave rutilare della macchina da presa, dalle microstorie che, nel delineare la giovinezza, la mentalità e la cultura di una Cina che non esiste più attraverso il mosaico di giovani ed eterogenei personaggi, si avvicendano e si intrecciano nel corso del film. Ed è un interessante paradosso come la miccia che porta allo sfilacciarsi di un equilibrio faticosamente raggiunto sia proprio la verità, il dichiarare il proprio amore tenuto celato per lunghi anni, il lanciarsi in un “deludente” abbraccio “corruttore”, perché la giovinezza è anche amore e l’amore è anche pena, facciata, imbarazzo. Dolore, atroce e impossibile da controllare. Attraverso tradimenti, delusioni, desideri, sofferenze, ricerca della perfezione e scoperta dell’amore nelle sue diverse sfaccettature, Feng Xiaogang mette in scena la giovinezza e il popolo cinese durante un’era ambigua, contraddittoria, transitoria, fatta di attacchi politici personali e di negazione della libertà così come di dissidenti repressi e di morti nelle strade, ma al contempo più “vera”, pura, sincera, umana, nella quale magari si paga oltremodo una divisa presa in prestito senza chiederla per il tempo di farsi scattare l’agognata fotografia da mandare al padre, ma in cui non ci si fa alcun problema a regalare la propria unica catenina a chi ha bisogno di oro come sussidio medico. Avere vent’anni durante la Rivoluzione Culturale voleva dire vivere rapporti che nascono e crescono nella convivenza forzata e nei gruppi di lavoro, voleva dire arte e cultura come parte integrante di una nazione, voleva dire una giovinezza cristallina quanto temporanea, incerta e sconfitta fra il tempo che la porterà via e la pallottola che la può spezzare. Feng Xiaogang riguarda indietro con occhi commossi, a cuore aperto e con un chiaro afflato poetico e politico, senza che mai le lacrime gli facciano perdere lucidità. Youth è una giovinezza vissuta appieno e poi all’improvviso negata, è una generazione sconfitta negli ideali e nelle perdite, è una vorticosa, sentita e forse eterna danza cinematografica, che si muove elegante sul palcoscenico e sul proscenio di una Cina ormai storica e impossibile, ma ancora e per sempre gonfia di rimpianti. E non è forse questo puro, purissimo cinema?
Marco Romagna