“Un uomo onesto, un uomo probo,
tralalalalla tralallalero
s’innamorò perdutamente
d’una che non lo amava niente.Gli disse portami domani,
tralalalalla tralallalero
gli disse portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani.Lui dalla madre andò e l’uccise,
tralalalalla tralallalero
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.Non era il cuore, non era il cuore,
tralalalalla tralallalero
non le bastava quell’orrore,
voleva un’altra prova del suo cieco amore.Gli disse amor se mi vuoi bene,
tralalalalla tralallalero
gli disse amor se mi vuoi bene,
tagliati dei polsi le quattro vene.Le vene ai polsi lui si tagliò,
tralalalalla tralallalero
e come il sangue ne sgorgò,
correndo come un pazzo da lei tornò.Gli disse lei ridendo forte,
tralalalalla tralallalero
gli disse lei ridendo forte,
l’ultima tua prova sarà la morte.E mentre il sangue lento usciva,
e ormai cambiava il suo colore,
la vanità fredda gioiva,
un uomo s’era ucciso per il suo amore.Fuori soffiava dolce il vento
tralalalalla tralallalero
ma lei fu presa da sgomento,
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato,
quando a lei nulla era restato,
non il suo amore, non il suo bene,
ma solo il sangue secco delle sue vene”.Fabrizio De André, La Ballata dell’amore cieco (o della Vanità)
Ci sono registi che passano tutta la carriera a fare grossomodo lo stesso film perché ritengono di aver trovato una forma efficace, e la ricalcano fino a quando il botteghino darà loro ragione. Ma Hong Sang-soo non fa parte di questi artigiani del cinema, è un autore sommo, e non è certo l’incasso del film il suo obiettivo. Il regista e sceneggiatore sudcoreano ricalca da sempre le stesse forme minimali e aggraziate perché ritiene che siano le sole possibili per continuare, un film dopo l’altro, nella sua indagine nei sentimenti umani e dei rapporti di coppia. Il suo cinema è figlio di un’ossessione viva e pulsante, è un atto estremo di resistenza contro un mondo che continua a disumanizzarsi, è un cinema dolcissimo di piccole gioie dello stare insieme, di tenerezza, di litigi, di rimpianti, di dialoghi, di confessioni a cuore aperto, di variazioni sul tema con cui ritrovarsi. Quello di Hong Sang-soo, forse ancor di più rispetto a quello nevrotico di Woody Allen con il quale più volte è stato azzardato un paragone tematico, è un cinema d’amore e sull’amore, in cui ogni opera è una sorta di flusso al contempo indipendente e legato a doppio filo con ogni film precedente e successivo, in una struttura modulare fatta di estrema semplicità e di pianisequenza a due, di titoli di testa scritti rigorosamente a mano, di impercettibili panoramiche, di zoom che giungono inaspettati quando il dialogo si fa più fitto quasi come fossero un campo scavalcato, di sentimenti che vengono repressi fino a esplodere, di bar che emergono dalla notte di Seoul, di bicchieri riempiti e soprattutto svuotati, di minime parole fuori posto pronte a scatenare una tempesta e di eterni ritorni, perché è solo l’amore ciò che vince sempre. Il cinema di Hong Sang-soo è un continuo viaggio andata e ritorno nell’anima, è un detour di incomprensioni e bugie, di voci che si alzano per nulla, di ubriachezze permalose, di torti e di intimo patetismo dell’uomo. Sono storie d’amore matto e disperatissimo ma mai davvero impossibile, storie di seduzioni e di promesse, storie di abbandoni e di corse sotto la pioggia, storie di lacrime e di sorrisi. Storie semplici, intime e personali come è semplice, intimo e personale lo stile che le racconta, storie dolci e straziate come è dolce e straziato lo sguardo del regista sull’umanità, storie profonde e universali come è profonda e universale l’ossessione che da sempre muove la manovella della macchina da presa di Hong Sang-soo.
In attesa che alla Berlinale, fra un paio di settimane, venga presentato in concorso il nuovo On the beach at night alone, e sapendo Hong Sang-soo già al lavoro su altri due progetti, La caméra de Claire attualmente in postproduzione e un altro film attualmente privo di titolo di cui sono già iniziate le riprese, l’International Film Festival di Rotterdam permette di recuperare Yourself and yours, presentato lo scorso settembre a Toronto e ancora inedito in Europa. È una commedia agrodolce sull’amore cieco, nella quale Hong contamina il suo consueto minimalismo e la sua solita profonda lettura dell’animo umano con toni surreali ispirati a Buñuel e al suo Quell’oscuro oggetto del desiderio. Ma dove nel film di Buñuel la protagonista Conchita – che farà impazzire o quasi d’amore il cinquantenne Mathieu con i due corpi e temperamenti interscambiabili di Carole Bouquet e Angela Molina – è lo stesso personaggio interpretato da due attrici, Yourself and yours compie un percorso opposto, nel quale l’attrice Lee Yoo-young è sempre la stessa, ma Minjong, il suo personaggio, appare come sdoppiato, ambiguo, sfuggente.
Avevamo lasciato Hong Sang-soo a Locarno 2015, con in una mano il Pardo d’Oro vinto con Right Now, Wrong Then e nell’altra una bottiglia del tipico liquore coreano. I suoi film hanno sempre visto scorrere fiumi di alcool, utilizzato per litigare e poi ritrovarsi, utilizzato per riflettere e per piangersi addosso, utilizzato per conoscersi e per dichiararsi, ma mai come in Yourself and yours le bevande alcoliche erano assurte a vere e proprie protagoniste del film. Erano compagne di vita, erano il mezzo con cui prendere pessime e ottime decisioni, erano un collante sociale naturale, erano una forma di dialogo più pura perché scevra di freni inibitori e di bugie, ma non il punto focale. Questa volta, invece, l’alcool è la pietra dello scandalo, è ciò che fa venire meno il rapporto di fiducia fra Minjong, bella ma dal gomito troppo spesso alto, e Yongsoo, che vorrebbe sposarla ma viene messo in guardia riguardo le sue ripetute puntate al bar, spesso in compagnia di altri uomini, e per la decisione di parlargliene finisce per perderla. Ma forse, come si diceva, Minjong non è lei: forse ha una sorella gemella, forse ha sviluppato ormai una sorta di disturbo della personalità per cui rifiuta il suo stesso nome, non riconosce le proprie azioni e nemmeno si ricorda degli uomini, o forse è semplicemente una gatta morta capace di tenere tutti nel sacco, perché alla fin fine nel cinema di Hong Sang-soo sono sempre le donne a decidere sulle relazioni, e l’uomo per quanto possa giocare a fare il lupo finisce sempre per singhiozzare come un bimbo che ha bisogno di essere rincuorato, messo a nudo all’apice della propria sincerità, patetico e ridicolo, tenero e impaurito. Ma poco importa, in fondo, quale sia la reale natura di Minjong, angelica dark lady, inizio e fine di ogni pensiero del suo innamorato: quello che conta è rendersi conto dei propri sentimenti, quello che conta è imparare ad accettare le persone per come sono, e non in ultimo quello che conta è, anche, lasciare chi vuole bere in pace libero di farlo, senza volontà di controllo, senza che venga meno il rapporto di fiducia reciproca che deve regolare qualsiasi coppia.
Yourself and yours è forse un’opera leggermente minore nella splendida filmografia dell’autore coreano, forse meno compatta ed emozionata di altre volte, probabilmente leggermente fuori dalle corde nel portare sullo schermo le suggestioni ambigue e surreali di un doppio personaggio che forse è una doppia personalità, forse è una sosia, o forse è un’incarnazione dell’alcool stesso e della sua capacità di far emergere il lato più intimo di ognuno di noi. Ma Yorself and yours, nell’opera del regista, è con ogni probabilità anche il film più intimo e autobiografico, che Hong Sang-soo “dedica” in un certo senso a un amico, il bere, da sempre fedele. E non è un caso quindi che “gli altri” di Minjong siano un aitante signore di mezza età dai capelli grigi e un coetaneo regista cinematografico ubriaco, quasi fossero il profilo privato e quello pubblico dello stesso Hong, destinati, una volta messi uno di fronte all’altro con la donna in mezzo che non riconosce più il primo, a scontrarsi verbalmente per poi riconoscersi e ritrovarsi, ancora bevendo, come vecchi amici.
Con Yourself and yours Hong Sang-soo continua il suo viaggio nelle pene d’amore, fra ironia sorniona e lunghi dialoghi a cuore aperto, fra una dichiarazione d’amore infinito accolta con un “Capisco” e una storia destinata sempre a ricominciare daccapo al tavolino di un bar, fra sparizioni e sorelle gemelle, fra seduzioni e abbandoni, fra schizofrenia e alcolismo, fra promesse “che servono solo a litigare” e certezze che si rivelano solo fallimenti, perché “L’unica cosa che voglio è vederti per un po’ di tempo ogni giorno”. Yourself and yours è un film di pura poetica, nuova puntata di un cinema in cui la messa in scena ha un ruolo fondamentale per cogliere le minime emozioni che i dialoghi riescono a donare, e in cui da sempre si riversa il cuore di chi lo sceneggia e lo dirige. È un film di eccezionale levità, tenero e dolce, costruito sulle minime variazioni, costruito sulle frustrazioni e sui sorrisi di ogni giorno, costruito sulle piccole cose – le stesse sui cui poeta Paterson nell’ultimo splendido Jarmusch, le stesse su cui dal 1996 continua a interrogarsi con profondissimo trasporto il cinema di Hong Sang-soo. Perché in amore, in fondo, è come se fosse sempre la prima volta, non serve essere convinti di sapere esattamente chi si ha di fronte, conta solo innamorarsi costantemente, accettare anche i lati oscuri, riscoprirsi ogni giorno, lasciare comandare il cuore in un mondo in cui la mente ascolta e segue le dicerie, e pazienza se dovessero essere vere, la felicità è più importante. La felicità sta in un abbraccio al buio, la felicità sta in uno spuntino notturno dissetante come una fetta d’anguria, la felicità sta nell’accettarsi e nel vivere insieme la quotidianità. La felicità, forse, è solo quella sensazione di inebriante leggerezza che scorre ogni volta su e giù per l’anima insieme ai titoli di coda dei piccoli gioielli cinematografici di Hong Sang-soo.
Marco Romagna