Nel continuo percorso concentrico di Claire Simon attraverso le varie umanità che percorrono la realtà, il soggetto del suo ultimo documentario probabilmente si rivela di una lettura più difficile o quantomeno stratificata. Se nel microcosmo di Le Bois dont les rêves sont faits lo spazio risultava estremamente determinato e dunque la ricerca in un certo senso aveva una direzione, o ancora in Le Concours lo sguardo era diretto essenzialmente al raggiungimento di uno scopo come alla percezione contemporanea di una forma d’arte (e soprattutto di linguaggio), qui in Premières Solitudes, presentato al Forum della 68ma Berlinale, siamo davanti allo sterminato mondo dell’età dello sviluppo. Questo sterminato, quanto più che mai evanescente, campo di indagine impone un approccio quanto mai provvisorio e impressionista, legato al momento come al frammento, a quella parola appena accennata e quella che non si ha il coraggio di pronunciare (e forse proprio per quello ancora più importante). Per questo e per altri motivi il viaggio della Simon in in liceo di periferia rimane in un continuo stato di sospensione narrativa, in cui gli stessi ragazzi (re)citando se stessi spesso corrono il rischio (ovviamente positivo) di scoprirsi davanti alla macchina da presa e dunque del finire anche a far i conti con loro stessi, spesso per una delle prime volte. Il gioco del riprendersi e dell’essere ripresi nasconde sempre domande che la vita spesso non ha ancora avuto il tempo di porre, e il futuro così si mostra molto più vicino di come un giorno qualsiasi potrebbe apparire.
Siamo al Lycee Romain Rolland di Ivry-sur-Seine, situato a sud di Parigi, un giorno qualsiasi appunto; di quelli che aprono alla primavera, a un altro anno scolastico di cui già si vede la fine. Dopo un montaggio vorticoso, di cuffiette e smartphone, (quasi da videoclip) siamo direttamente immersi nella realtà di questi ragazzini dalla vita volubile ed un po’ dissipata, come se la macchina da presa non esistesse (o forse è proprio la loro abitudine a essere davanti ad un obiettivo che non la fa apparire). Non siamo in centro, e dunque i ragazzi che troviamo sono per lo più figli appartenenti alla classe operaia e proletaria come immigrati di prima o seconda generazione, quasi tutti all’interno di famiglie non esattamente ideali alla nostra affabulazione occidentale (spesso non complete, con ingenti difficoltà di lingua, assediate da problemi economici, malattie mentali, adozioni, integrazione, ecc ecc.). Spesso è la solidarietà che si crea nella microcomunità dei ragazzi che invita tutti a guardare un domani possibile, indipendente da ieri e meno cupo dell’oggi. Proprio per questo, ovviamente, al centro dei discorsi degli studenti ci sono le relazioni; quelle del passato in cui si indaga il rapporto tra i genitori e l’influenza che hanno avuto sul loro essere attuale, quelle del presente tra il senso immaginato di una cotta e ciò che potrebbe rappresentare un amore (sempre a patto di esser in grado di accettarlo), quelle del futuro sulla possibilità di avere figli e famiglia, sul compiersi di un altro ciclo della vita. Essere nei mesi che portano alla maggiore età in quest’epoca non può essere facile, ma allo stesso modo non deve essere impossibile; ed è proprio la comprensione, come l’accettazione, di quella età che appare come momento di formazione. A patto che non questo non avvenga da soli.
Perché all’interno del pensiero dei ragazzi risiede la solitudine, o almeno la percezione che i ragazzi possono avere di essa. Con la camera a pochi centimetri dai loro volti Claire Simon ascolta l’aprirsi al mondo di questi ragazzi, e soprattutto le loro paure di una generazione stravolta. Il dispositivo, come la sensibilità della autrice, lascia i ragazzi interagire tra loro, accettandone le pause come gli accenti, ogni tremore come ogni slancio, senza nessuna alterazione, senza nessuna prospettiva che non sia la loro; la terrazza della scuola diventa una specie di confessionale dove raccontarsi, ma allo stesso modo luogo in cui è possibile puntare lo sguardo oltre, a quel mondo in movimento così vorticoso e forse pericoloso che i ragazzi attraverseranno proprio nel finale, abbracciati da un sole quasi tiepido di una stagione nuova. Lontano dal creare uno spaccato o tanto meno un percorso all’interno di una realtà più che mai provvisoria, Claire Simon disegna un ritratto di straordinaria semplicità sull’angoscia del contatto come dell’assenza e sulla stessa voglia che tutto ciò possa diventare una prospettiva nuova e spontanea, anche nei momenti più tristi e toccanti. «So chi voglio essere, ma non so chi sarò». Non sappiamo se questa frase l’abbia pronunciata Anaïs, Catia, Clément, Elia, Lisa, Hugo, Judith, Manon, Mélodie o Tessa, perché a suo modo è di tutti – e forse anche di qualcuno come noi, che di anni ne ha almeno una decina in più. E forse questo concetto, quello che va oltre alla solitudine reale ma che si pone come distanza tra l’io del presente e quello possibile del futuro, è proprio il momento pulsante di un’altra generazione dissipata (se non disperata) che trova la sua forma di resistenza nella condivisione di momenti e di parole, nell’affermare come l’amicizia e in un certo senso l’amore siano le uniche ancore possibili di salvataggio in quello che potrebbe rivelarsi il naufragio del crescere. La prima solitudine è come la prima parola o i primi passi, qualcosa in cui tutti dovrebbero essere accompagnati; anche dal cinema, se gli si riconosce la possibilità di farlo.
Erik Negro