YOU WILL DIE AT TWENTY (2019), di Amjad Abu Alala
«Muzamil è uno di noi, uno dei tanti costretto nel ruolo che la società gli ha affibbiato! Rinchiuso in uno spazio in cui non è possibile annusare l’aria che c’è fuori! La storia descrive la sofferenza e il dolore di quelle comunità che affogano nell’ignoranza e nella superstizione. Per certi versi Muzamil trascorre la sua vita pagando il prezzo per tutti quelli intorno a lui che credono in cose inesistenti, arrivando perfino ad abbracciare l’idea della propria morte. Il mio film è un invito alla libertà. Nessuno dovrebbe mai dirti: Muzamil, questo è il tuo destino, così è scritto e non puoi far altro che accettarlo. Scappa, ragazzo!»
Amjad Abu Alala
Forse You will die at twenty, buon esordio al lungometraggio di Amjad Abu Alala presentato al Lido in Giornate degli Autori e tornato a casa con l’ambito Leone del futuro – Premio Venezia opera prima Luigi De Laurentiis, non era realmente “la migliore opera prima” della 76ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. C’erano, scorrendo l’elenco dei possibili candidati, film d’esordio probabilmente ancor più quadrati, ambiziosi e riusciti, come l’abbacinante Parthenon, come il potente All this victory, come il carcerario e formativo El Principe, come l’agghiacciante Giants being lonely, oppure come lo stesso Babyteeth dalle spalle sufficientemente larghe per reggere il concorso principale e portare nelle mani del giovane Toby Wallace il Premio Mastroianni come miglior attore emergente. Eppure è difficile non dirsi felici e pienamente d’accordo con la decisione della giuria capitanata da Emir Kusturica di assegnare il “Leoncino”, e conseguentemente i centomila dollari dell’unico premio in denaro della Mostra, a You will die at twenty. Il titolo, sia dal punto di vista geopolitico sia dal punto di vista culturale, nettamente più “importante” fra quelli in rosa, capace di portare per l’ottava volta in oltre centoventi anni di storia il cinema in un Paese, il Sudan, dove non esiste e in sostanza non è mai esistita l’industria cinematografica, tanto che saranno proprio le prime proiezioni clandestine in 16mm della sua vita a salvare il giovane protagonista svelandogli come la cultura e la contemporaneità vadano ben oltre il misticismo religioso e le credenze popolari, facendo di ogni uomo l’artefice del proprio destino. Un premio emblematico e lungimirante, ancora di più in un’edizione della Mostra che, dimenticando parte delle sue funzioni in quanto organo della Biennale, ha visto, scorrendo fra gli oltre centoventi titoli presentati fra tutte le sezioni, la miseria di quattro (due in Orizzonti, uno in Sconfini e, appunto, questo in Giornate degli Autori) film africani, a fronte di una predominanza occidentale sempre più assoluta. Un premio che significa un incentivo, una presa di coscienza, una spinta ben precisa in una direzione troppo spesso lasciata ai margini, nelle sue difficoltà produttive e distributive, e che invece, se non altro nei circuiti festivalieri, meriterebbe una ben maggiore centralità. Anche perché, al netto di qualche sterilità e di qualche forzatura simbolico-narrativa in emersione dall’affastellarsi forse eccessivo di tematiche e suggestioni che a tratti diventano più un campionario che un vero e proprio ragionare – basterebbe pensare al bullismo giovanile subito dal protagonista, chiuso in una cassapanca e lasciato lì in attesa di non tornare nell’ultimo salto temporale della narrazione, oppure a quell’accenno omosessuale dell’insegnante di Corano a torso nudo che rimarrà isolato in una sola sequenza senza alcun tipo di richiamo o ripercussione –, l’affascinante e autorialissimo You will die at twenty sa perfettamente su quali tasti spingere, con la sua straordinaria cura visiva e con la sua indubbia capacità pittorico-vocativa di toni caldi, silhouette, simboli, sfocature, contrasti e oscurità, per tessere il suo forte e chiaro grido di libertà. Guardando apertamente, per tematiche, modalità narrative, attori non professionisti e centralità della cultura locale ben al di là della mera antropologia, a quanto fatto in Senegal da Ousmane Sembène e da Djibril Diop Mambéty, e ancor più dichiaratamente, con tanto di una proiezione di Bab el Hadid – Cairo Station con la quale iniziare a sognare una nuova Hanouma con cui emanciparsi, da Youssef Chahine subito oltre quel confine a nord tracciato col righello con l’Egitto. Fra superstizioni di misticismi sufisti e progressisimi salafisti, fra profezie di morte e destini ancora da scrivere, fra le coraniche chiusure e gli edonismi riformisti delle diverse facce e dei diversi schieramenti dell’Islam. Ma andiamo per ordine.
Prima di tutto c’è il Sudan (di ieri, di oggi, e soprattutto di Omar Hasan Ahmad al-Bashir, la cui sanguinaria e trentennale dittatura fondata anche sui timori religiosi è stata rovesciata proprio nel corso dell’ultimo aprile, nei mesi intercorsi fra le riprese e la presentazione di questo profondamente politico, e a questo punto per molti versi profetico, You will die at twenty) nella polverosa provincia di Aljazira. Un luogo in cui i neonati vengono portati, come in una sorta di battesimo sufista, al santone del villaggio che, nel bel mezzo di una cerimonia mistica, cercherà di leggere il loro libro del destino. Durante la presentazione di Muzamil, però, uno dei danzatori impegnato a contare perderà i sensi al numero 20 della sua progressione. Per gli astanti un evidente presagio di sventura e di morte, secondo il quale il bambino non potrà superare i vent’anni, destinato a spirare senza che niente e nessuno possa modificare l’ineluttabilità del destino. Il padre di Muzamil, disperato per la maledizione secondo la quale il suo primogenito non arriverà all’età adulta, decide di partire per lavorare all’estero abbandonando la famiglia, mentre la super-protettiva Sakina, vivendo costantemente nell’immagine di quella nuova Pietà michelangiolesca che crede inevitabile, si ritroverà sola a crescere il figlio. Un bambino chiamato dai suoi coetanei «figlio della morte», un bambino tenuto il più possibile chiuso in casa (in una nuova debolezza narrativa: perché, anche credendo pedissequamente a ogni superstizione iper-religiosa, se il destino prevede la sua morte a 20 anni essere terrorizzati dal fatto che possa morire prima?) e in ogni caso lontano dal fiume, un bambino consapevole sin da subito di quello che sarà il suo futuro. Eppure un bambino che vuole crescere, imparare, evolversi, trovando nello studio cantato del Corano, l’unica attività permessagli dopo lunga opera di convincimento dalla madre, la sua via per eccellere. Fino a quei diciannove anni, nella spensieratezza dei coetanei trecentosessantacinque giorni in attesa di una morte che si crede sempre più vicina, in cui si ritrova primo ragazzo del villaggio a conoscere a memoria l’intero testo sacro, ma anche a incontrare per la prima volta, per una consegna lavorativa, Suleiman. Un uomo reso cinico e per molti versi arido ma anche aperto dalla vita, lupo di mare tornato dopo molti anni all’estero per convivere con una prostituta e tracannare senza il minimo senso di colpa quegli alcolici proibiti dalle letture più letterali della parola del Profeta. Non un vero ateo, non un vero blasfemo, ma un riformista disilluso e affascinato dall’occidente, che anche in una zona in cui basta anticipare una frase con «Inshallah» perché la superstizione iper-osservante la trasformi in legge ineluttabile si stacca dai più ortodossi per cercare, molto al di là delle riletture salafiste, il modernismo nelle radici del Corano. Ma soprattutto, per Muzamil, un uomo che diventa surrogato di quella figura paterna in sostanza mai conosciuta (tanto che, quando si ripresenterà per “gli ultimi mesi” il padre “vero”, ci vorrà un bel po’ di freddezza prima del deflagrare della tenerezza di chi si è sentito da sempre abbandonato), in grado di aprire la sua mente e la sua curiosità alla cultura, all’idea di viaggiare, al mondo esterno, al cinema, alle immagini di luoghi lontani, a possibilità di espressione per lui sconosciute. E ovviamente anche al desiderio e alla sessualità, contro ogni tabù, verso quella libertà che vuol dire smettere di credere all’ineluttabilità del destino, e quindi salvezza di chi ha preso in mano le redini della propria vita. Perché ovviamente non morirà, Muzamil, impegnato a tagliare il traguardo dei vent’anni nel tempo di un amplesso di carne e meretricio dopo il quale ritrovarsi quasi all’improvviso grandi, liberi, inaspettatamente ancora vivi. Finalmente artefici della propria fortuna, senza più profezie da smentire, senza più paura della morte, senza più il terrore di commettere peccato nel baciare nel prossimo futuro la ragazza che si ama e che da sempre ricambia, e soprattutto senza più quella stanza in cui, come sui muri di un carcere, segnare il passaggio di ogni giorno. Per un Sudan nuovo, finalmente moderno, finalmente libero. E poco importa a questo punto se, nel corso di questo processo personale, politico, cinematografico e sociale, non proprio tutti i tasselli sembrano incastrarsi alla perfezione. Quello che realmente conta sono la purezza e la potenza del gesto, quello che realmente conta è aver portato il cinema dove non esiste sfruttandolo per ragionare sull’intima e ancestrale natura dei luoghi, delle persone, delle credenze, della religione, del destino, della cultura popolare. Fino a partecipare, o per lo meno a mettere lateralmente in scena finendo quasi per documentarne le ripercussioni sociali, un cambiamento epocale. Del resto, non è fra le funzioni primarie della settima arte quella di poter finalmente scoprire e conoscere se stessi?
Marco Romagna