YOMEDDINE (2018), di Abu Bakr Shawky

I buoni sentimenti, quelli immediati, semplici, pronti a scatenare reazioni di facile empatia nel pubblico. Il viaggio, la ricerca delle proprie radici, la marginalità sociale. Yomeddine di Abu Bakr Shawky, opera prima in lungometraggio passata in concorso al Festival di Cannes 2018, sembra porsi ambizioni di umile portata. Nessuna particolare originalità, nessuna aspirazione a parlare di chissà quali inarrivabili verità assolute. Piuttosto Shawky sembra voler innanzitutto dimostrare la propria capacità di maneggiare materiali decisamente classici del cinema. Yomeddine assomma in sé almeno tre tòpoi narrativi di lunghissima tradizione: al racconto on-the-road si affiancano infatti il tema del “mostro gentile” e la risalita alle fonti di se stessi. Tutto ciò, ovviamente, non è collocato in un’astratta terra di nessuno, bensì conserva comunque salde radici nell’orizzonte sociale dell’attuale Egitto. È una via mediana, quella scelta da Shawky. Si conserva infatti a metà strada tra la cronaca sociale e il canone classico, il legame col contingente e la dimensione della fiaba fuori dal tempo. Con reiterate preferenze, probabilmente, nei confronti della seconda.
Della fiaba avventurosa Yomeddine mostra infatti anche la proverbiale solidarietà tra i vinti, una “poesia dei bassifondi” mai ammantata di compiacimenti estetizzanti, bensì fortemente calata in un atteggiamento gradevole e scanzonato. Shawky insomma appare motivato da un approccio ingenuo e scaltro al contempo. Il suo film si profila non propriamente come “racconto naif” di una realtà e di un profilo umano, bensì mostra di conoscere piuttosto bene i vari trucchetti del mestiere. Così al protagonista si affianca un ragazzino orfano, a sua volta desideroso di risalire alle proprie origini familiari. Così, spira su gran parte dei personaggi incontrati lungo il viaggio un’aria garbata e ironica, che spinge all’identificazione e vuol farci piacere le figure umane narrate ad ogni costo. Così, Shawky non si fa troppi scrupoli neanche di didascalismo, quando di fronte all’ennesima ingiustizia subita dal protagonista Beshay in quanto lebbroso, gli mette in bocca un chiarissimo “Sono anch’io un essere umano!”, forse citazione fin troppo ambiziosa da The Elephant Man (1980) di David Lynch. Non c’è bisogno di trattenersi e procedere per allusioni ad ogni costo; in un racconto che vuol essere anche popolare, il messaggio a chiare lettere non è peccato mortale e non suona per nulla stonato rispetto al contesto.

Yomeddine narra infatti nell’Egitto di oggi il lungo viaggio di Beshay, quarantenne deturpato dalla lebbra che una volta rimasto vedovo decide di partire alla ricerca della propria famiglia (a suo tempo, il padre lo lasciò al lebbrosario promettendo invano di andare a riprenderlo), ed è soprattutto nel confronto tra Beshay e l’altro che è giocata la sostanza espressiva del film. Tra Beshay e i vari soggetti incontrati lungo la strada intervengono distanze più o meno ravvicinate. A un certo punto, a sancire tale divisione dal mondo appare un velo aggiustato sul volto di Beshay. Non è contagioso, ma le sue cicatrici non guariranno mai. Quelle deturpazioni sul volto e sulle mani sono il segno incancellabile della sua diversità, della distanza che lo separa dal mondo generalmente accomunato da un moto di ribrezzo e rifiuto nei suoi confronti. Nel racconto della diversità, ben segnalata stavolta da precise connotazioni fisiche, Yomeddine mostra le sue cose migliori, adottando una furba mistura di pietà e ironia, e insistendo soprattutto su controcampi pieni di dubbio e paura (i vari “osservatori” del volto di Beshay) e su distanze variabili tra i corpi. Al secondo versante di diversità (Beshay è di fede copta cristiana) si dà invece minor rilievo, per lo più collocato in battute secondarie e tenui sottolineature. Domina principalmente quel tenero rapporto a due col piccolo orfano “Obama”, un po’ figlio e un po’ fratello minore del protagonista, che in un contesto molto diverso fa comunque ritornare alla mente, a tratti, Central do Brasil (1998) di Walter Salles.
Nulla di imprescindibile e originale, insomma, bensì un cinema onestamente popolare che non teme di tirare la lacrima (i momenti commoventi, in effetti, sono numerosi: uno su tutti, l’incontro col padre) e che non disdegna neanche di aprirsi di tanto in tanto a intelligenti parentesi oniriche. Le ingenuità stilistiche e narrative si alternano in egual misura alla capacità di sposare un linguaggio diretto e senza filtri, ma si badi bene non privo di sovrastrutture formali. Ché, per l’appunto, Yomeddine mostra di conoscere piuttosto bene i meccanismi fruitivi ed empatici del cinema classico. Sul finale, insomma, un po’ tutti magari ci scopriamo commossi e pure “edificati” da un racconto volutamente formativo. E al contempo testiamo la capacità del cinema di ingannarci ancora con i suoi strumenti di sempre. Più che nel contesto del “neorealismo mediorientale”, di cui Shawky conserva il consueto utilizzo di attori non professionisti, qui siamo più dalle parti della neo-fiaba. E forse anche per questo l’inganno è più facile. Lacrimuccia finale, applausi. I buoni sentimenti trionfano. E non c’è da dispiacersene, per una volta.

Massimiliano Schiavoni