YEARS OF CONSTRUCTION (2019), di Heinz Emigholz

Years of Construction inizia con una panoramica leggerissima, che sfiora le acque del Reno da una sponda all’altra con vista ciminiere e carbone. Un movimento, quasi a sorpresa, che trasporta nel centro di Mannheim e attorno alla sua Kunsthalle. Un movimento, spaziale, che invita a quello temporale di cinque anni, dalla demolizione alla ricostruzione di un’ala del museo. Come indicano le note di regia si parte dalle imponenti fontane della Friedrichsplatz, per la prima grande mappatura di avvicinamento che Emigholz disegna tra l’originaria struttura in Jugendstil e l’estensione del 1983 di Hans Mitzlaff (con, nei sotterranei, un bunker nazista costruito durante la guerra); si nota subito una dissonanza tra le antiche sale del museo e le opere oggi installate, come se questa disarmonia non rendesse fede al rapporto che deve instaurarsi oggi tra uno spazio e la sua funzione. Ogni anno, per tutto il loro lento e inesorabile procedere, la camera dell’architetto tedesco torna a documentare i lavori, lo smantellamento e la demolizione, la posa delle fondamenta modernissime e il nascere della nuova struttura, il suo prendere forma anche attraverso le sofisticate rifiniture. Nel 2018 la nuova Kunsthalle (firmata dallo studio Gerkan, Marg e Partners) è pronta a ospitare le opere in un altro allestimento, con altra forma, tra immense vetrate ingabbiate in cavi d’acciaio. Come la stessa sede che ridefinisce anche il centro stesso di Mannheim, le sue arterie e i suoi esercizi. Anche l’architettura, a pensarci bene, forse più di tutte le altre arti compresse in un’espressione vive nella (sua) dialettica. E in essa non può conoscere confini.

Nel suo percorso pressoché infinito di studio e ricerca (Photography and beyond – Part 29) Heinz Emigholz in questo film pare ricercare qualcosa di diverso, un’azione compiuta, in cui si possa esprimere un prima e un dopo. Perché nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Emigholz pone lo sguardo su uno dei luoghi istituzionali fondamentali in Europa per la comprensione dell’arte nel ventesimo secolo, donandoci una splendida chiave di lettura del contesto. Guarda a questa Kunsthalle come estensione dello spazio urbano – e dunque come codifica, attraverso il suo mutamento – e sociale, si sofferma sui punti di fuga come sugli interstizi pensando al movimento stesso del museo in perenne moto con gli altri organi della città. A essere scandagliato è tutto l’ambiente umano di produzione e contemplazione, l’aspetto che esso ha in relazione con il mutamento dello spazio (anche attraverso i lavori in corso) e il suo adeguamento (assorbimento?) alla nuova realtà. Il lavoro è estremamente complesso, con migliaia di riprese fisse, con uno straordinario e rigoroso lavoro di costruzione delle inquadrature, con un montaggio sofisticato e cesellato, sinfonico e organico, magnificamente sincopato nel suo ritmo vorticoso e quasi ipnotico. Nell’apparente semplicità astratta di questo film si nasconde un profondo studio delle forme degli spazi in cui viviamo, lavorati attraverso il tempo del nostro (e loro) mutamento. L’ostentazione estetica è solo apparente, perché è presente una tensione pseudo-narrativa che si sovrappone all’impianto visivo, attraverso questo lavoro di costruzione che assume quasi una tridimensionalità cinematografica. La realtà diviene quindi momento costruttivo nell’atto di vedere e ricordare, e l’architettura è immaginazione del tempo che lo spettatore osserva attraverso un altro spazio, quello del cinema.

Years of Construction diventa dunque un film sull’atto di vedere, definito dallo stesso Emigholz – impegnato in questo arco di tempo in molti altri progetti e nella guarigione da una seria malattia – come spazio di esercizio del pensiero e del cambiamento. Ed ecco che torniamo al prima e al dopo – come non pensare alla demolizione del muro dei fratelli Lumière? – composto successivamente da un altro prima che di conseguenza avrà un altro dopo, in una costante trasformazione che continua e sempre continuerà la sua marcia tendendo sempre più verso l’infinito. Per Kant l’architetto (in senso metaforico, e non solo) era colui che avrebbe costruito la natura tutta secondo il concetto del piacere con, allo stesso tempo, il giudizio teologico del finalismo. Questo lavoro sulla Kunsthalle di Mannheim pare spinto verso il mostrare questo concetto, come la costruzione sia un esercizio del tempo che sfonda i limiti dello spazio e mette a contatto dimensioni ed espressione artistiche dai linguaggi così diversi. L’elemento che sconvolge la struttura spesso può apparire come un’interfaccia fra il cervello e il mondo esterno, e la vista in questo percorso assume un aspetto sostanzialmente fondamentale nel rapporto tra interno ed esterno, nel rispecchiarsi in una realtà che cambia in ogni momento essa sia filmata. Se il composito Streetscapes (presentato due anni fa proprio al Forum della Berlinale, dove ha trovato spazio anche Years of Construction) appariva come processo di razionalizzazione sperimentale del proprio percorso precedente (un lavoro di forma con le forme, con il paesaggio e con il linguaggio, con il suono e con l’immagine), qui Emigholz ci introduce in un aspetto puramente metafisico della realtà, nella sua significazione fatta di mille scarti e deviazioni, nel suo processo circolare senza principio, nello spazio della discontinuità come nel tempo della dispersione. Apparentemente troppo semplice da guardare, eppure così difficile da esser raccontato. Talmente asettico da generare emozioni inspiegabili, misteriose. Come sottolinea la sinossi, a un certo punto si intravvede un’istallazione che mostra un masso e un orologio fluttuare nell’aria senza apparente ordine. “The Moving Emptiness of the Moment” era il titolo dell’opera. Basterebbe questo, forse.

Erik Negro