ABIDING NOWHERE (2024), di Tsai Ming-Liang
Fa avanti e indietro arrivando progressivamente sempre più lontano, il monaco buddista dalla lentezza esasperata interpretato un passo dopo l’altro da Lee Khang-sheng. Prima dalla Taiwan dei tre capitoli iniziali No form, Sleepwalk e Diamond sutra fino alla Hong Kong di Walker, e poi dalla Malesia di Walking on water alla Francia di Journey to the West, dal Giappone di No No Sleep al rientro a Taipei con Sand, dal ritorno a Parigi con il Centre Pompidou di Where fino alla Washington DC nella quale inoltrarsi in questo Abiding Nowhere, letteralmente “dimorare da nessuna parte”, decimo episodio di una (anti-)serie, quella del “camminatore” immaginato e messo in scena da Tsai Ming-Liang ispirandosi al leggendario monaco Xuanzang che fra il 629 e il 645 d.C. percorse a piedi oltre diecimila chilometri sulla Via della Seta, tutto fuorché esaurita e anzi potenzialmente infinita. Un dilatatissimo moto perpetuo in cui metterci una quindicina di secondi a fare ogni passo, in simbolico e sfacciato contrasto con la frenesia del mondo, delle città e del Capitale. Un cammino incessante “alla moviola” e a piedi nudi, prima nella Natura della campagna e dei boschi e poi fino al cuore della città, in cui passare per stazioni e teatri, per incroci e per musei, mentre intorno il resto del mondo sfreccia a piedi, in auto e in moto concedendo magari – in un’America abituata all’eccentrico molto meno che altrove – giusto il tempo di una fugace occhiata curiosa e un po’ stranita a quel muoversi serafico come a una stranezza fra le tante che è possibile incrociare, per poi tirare dritto e ricominciare ad affrettarsi verso i propri impegni senza nemmeno notare la macchina da presa nascosta da qualche parte nei paraggi. Settantanove minuti, questa la durata di Abiding Nowhere in una crescita pressoché costante dei minutaggi che dai 20’ delle prime sortite si è progressivamente allungata (e giocoforza radicalizzata) in ogni sua nuova parte fino a sfiorare (e nel caso di Where a superare) l’ora e mezza, nei quali ancora una volta Tsai porta lo spettatore a ridiscutere l’atto e il senso stesso del guardare proprio e altrui, il tempo per il quale poterlo fare e in quale spazio, in uno slow cinema di osservazione e di puro slancio poetico, di corpi e di luoghi, di un’estetica che è intrinsecamente etica nel sentimento e nella purezza dello sguardo. La parabola di una solitudine ascetica e silenziosa, questa volta destinata a lambire senza mai intersecarsi un’altra solitudine affidata al giovane Anong Houngheuangsy già co-protagonista di Days, che di film in film continua a rifiutare ogni convenzione e ogni ritmo canonico, tanto sociale quanto del cinema, per configurarsi ogni volta come nitido e dolcissimo atto di Resistenza, come percorso personale e spettatoriale verso una catarsi collettiva che alla smania e all’ansia del quotidiano contrappone l’umanità, la lirica e l’amore. Senza bisogno di alcun dialogo, senza bisogno di altri simboli o di altre metafore, a ben vedere senza nemmeno bisogno di una trama, che è più che sufficiente abbozzare in pochi gesti e un montaggio alternato lasciando tutto il resto all’ipnosi, alla suggestione, al libero vagare dei pensieri nel tempo che finalmente viene loro concesso. Quello che conta è semplicemente camminare, sempre, ovunque. Andare avanti imperturbabili nel proprio passo ignorando e lasciando cadere ogni tipo di barriera.
Da una parte il camminatore, che si trascina lentissimo fra il National Mall e Capitol Hill, fra il palcoscenico di un teatro deserto e l’affollato androne della stazione ferroviaria, fra le pareti di graffiti di un club cittadino e le sculture conservate nel locale Museo d’Arte Contemporanea che ha commissionato, lasciandogli totale carta bianca, il film a Tsai Ming-Liang. E dall’altra il giovane che frequenta gli stessi luoghi ma che probabilmente, a differenza di Denis Lavant che lo seguiva da lontano in Journey to the West, non incontrerà mai il monaco in viaggio, ma sarà destinato a preparare e a mangiare i suoi noodles ancora in solitudine e con lo sguardo da qualche parte nel vuoto, privo di un confronto e privo di un conforto. Due corpi, quelli messi in scena in Abiding Nowhere presentato dal maestro nato in Malesia ma a tutti gli effetti taiwanese in prima mondiale nel fuori concorso Special della 74ma Berlinale, che si muovono lentissimi oppure che si fermano per qualche istante di fronte all’illusione del movimento suggerita dalle linee di forza delle statue, come arti performative che dialogano e si compenetrano con le arti plastiche di fronte alle quali Lee Khang-sheng è straordinario a esasperare l’imperturbabilità del volto e la flemma di ogni singolo passo. Come pillole di filosofia zen che cercano un risveglio spirituale e una nuova nobile verità, in questa vita o magari nell’altra. Senza bisogno o volontà di aggiungere chissà che cosa a ciò che i nove episodi precedenti di Walker avevano già delineato e mostrato, ma semplicemente espandendone i confini, rilanciandone ancora una volta la calma serafica come necessità inalienabile, il minimalismo delle immagini fisse, dei gesti e dei volti come versi in metrica sulle pagine dell’esistenza. Alla ricerca di una purezza cinematografica assoluta, eterea e poetica, silenziosa e malinconica, potentissima nella forza espressiva ed emotiva di ogni singola inquadratura, nel suo tempo, nell’umanità enigmatica e straziante dei suoi protagonisti. Gli ennesimi Stray dogs che come cani randagi calcano le strade del mondo, ne percepiscono e ne vivono intimamente il dolore, e non possono fare altro che estraniarsi e andare avanti. Come mosche bianche che rimangono lontane dalla globalizzazione, dal capitalismo, dal consumismo, dalla frenesia della contemporaneità; consapevolmente fuori dallo spazio e dal tempo pur se fatti di dilatazione del tempo nello spazio, proprio come quei fantasmi di Goodbye Dragon Inn che si commuovevano di fronte alla loro performance di tanti anni prima nell’ultima proiezione di una sala cinematografica morente che non avrebbero mai voluto, e forse potuto, abbandonare. Rigorosamente con un piede sempre a terra, a contatto fisico con la finitezza del mondo, e con gli occhi verso l’alto a guardare e a cercare l’infinito, che nel capolavoro del 2003 era quello immaginifico di uno schermo cinematografico e qui è invece quello incommensurabile del cielo. L’ennesimo regalo in immagini – a dire il vero diventati sempre più frequenti proprio dal momento dell’annuncio del ritiro, evidentemente smentito non solo con il prosieguo del camminatore e con i documentari ma anche con la finzione pura di Days – da parte di uno fra i principali maestri della contemporaneità, sempre straordinariamente radicale nel suo minimalismo, nel suo sguardo, nella sua emotività strabordante, nella sua narrazione senza bisogno di parola, nella sua capacità di creare simboli e di allargare ogni volta il suo campo di indagine al senso stesso del vivere. Un passo dopo l’altro, il più lento e flemmatico possibile.
Marco Romagna