WOUNDS (2019), di Babak Anvari
Sono ben pochi i registi che girano con il talento purissimo del giovane iraniano Babak Anvari. Un talento raro, originalissimo e prezioso, capace di lavorare a basso costo sulla tensione e sulla paura partendo dalla lingua filmica, dalle posizioni e dai movimenti della macchina da presa, dalle attese e dal montaggio, dall’immagine subliminale e dal sonoro. Un talento esploso tre anni fa con il magnifico Under the shadow, che rileggendo i jinna della più antica tradizione tracciava le traiettorie di una straordinaria metafora politica sulla situazione femminile nella Teheran del 1988 terrorizzando lo spettatore solo con una macchina da presa, un appartamento e un lenzuolo, e che ora cerca il salto produttivo nel mainstream USA sotto l’egida del colosso Netflix con la lingua inglese, il cast americano e le ferite gnostiche, esoteriche e psicologiche della sua opera seconda Wounds, presentata a gennaio al Sundance e ora alla Quinzaine des Réalisateurs del 72mo Festival di Cannes. Un horror, tanto vale dirlo subito, che è di puro intrattenimento, forse più “ordinario” e meno ambizioso del precedente, privo o quasi di quella che era la sua potenza politica al di là di un accenno di critica alla società al tempo degli invasivi e totalizzanti smartphone, e al quale più che la metafora interessano il mistero, il fascino e la psicologia di un terrore allucinato. Ma soprattutto la messa in scena. Perché non è nella semiotica e nella dialettica fra significati e significanti che, questa volta, vanno cercati i meriti del film e di Babak Anvari: Wounds, ancor più di Under the shadow, vive e pulsa nel suo conflittuale profluvio di straordinarie e disturbanti soluzioni visive e linguistiche, in quella macchina a mano che spiando i suoi protagonisti attraverso le porte costantemente suggerisce una presenza, in quelle inquadrature scorciate che allarmano e inquietano per l’innaturalezza del punto di vista, in quelle allucinazioni possedute di ombre, riflessi, scarafaggi e fantasmi dalla testa cangiante che entrano nella casa e nella vita del protagonista, o in quelle esplosioni noise che, partendo dall’udito, stravolgono anche gli altri quattro sensi indirizzandoli verso un continuo crescendo di irrequietezza.
A partire dalla locandina dell’antonioniano Blow-up che campeggia nel salone della casa della coppia protagonista, Wounds lavora sulle ferite aperte che stanno sul confine fra realtà e immaginazione, fra vero e allucinato, fra maledizione e visione. Babak Anvari mette in scena telefoni cellulari e messaggi pronti a cambiare dopo essere stati letti, automobili nere e lucide che inseguono minacciose, omaccioni tatuati che rifiutano le cure mediche, misteriose forze oscure che scrivono e telefonano i loro fischi di dannazione, invasioni di scarafaggi sentiti fisicamente sulla pelle ma solo immaginati, ricerche al computer di fronte alle quali incantarsi nel buco nero di una ferita e vasche da bagno in cui immergersi nell’acqua nerissima per allontanare la condanna. Per far scattare la scintilla del cinema basta un bar notturno, basta una rissa fra ubriachi terminata nella profonda ferita al viso di chi è stato colpito con il collo di una bottiglia, e basta una città astratta, anonima e sporchissima, invasa da orde di scarafaggi di ogni dimensione. Ma soprattutto basta un telefono cellulare che, nella concitazione della zuffa, viene lasciato sul pavimento. Un cellulare che contiene al suo interno le prove dell’omicidio/rito che scatena la maledizione, dopo la cui visione la vita del bartender Will (l’Armie Hammer di Call me by your name, che con la Dakota Johnson di A bigger splash e soprattutto Suspiria completa un cast guadagniniano che potrebbe aprire a una lunga dissertazione su come i loro corpi siano molto più valorizzati dalle poche immagini allusive di Anvari, che li sa filmare restituendo sullo schermo la carne delle gambe, la pelle, i dettagli e quell’accenno di profilo di un seno che nasce morbido sotto le slabbrature della canotta di lei, che dagli interi lungometraggi del regista palermitano) inizierà progressivamente a distruggersi fra sms e fotografie, allucinazioni e miraggi, errori e rifiuti, abbandoni e follia, buchi neri e stati di trance, telefonate e salti dall’auto in corsa, bottiglie di whiskey e «fuck off» sparati in faccia alla moglie e alla capa, fino all’inevitabile caciara finale di possessioni, passaggi di corpo e scarafaggi che, con l’ennesima intuizione di messa in scena del regista, giungeranno in massa fino a coprire anche l’obiettivo della macchina da presa.
Finiscono in un gelido «ok» le relazioni amorose, finiscono nell’imbarazzo e in un addio telefonico gli approcci del barista protagonista con la bella avventrice Alicia (Zazie Beetz), finiscono in rissa i dialoghi con il ragazzo che la ama, finisce nel nulla la denuncia alla polizia del protagonista, e finisce in un’autodistruzione che è al contempo riscatto la parabola di Will, nel suo consapevole sacrificarsi per accogliere il demone e liberarne gli altri. In una costante immersione nell’ansia, più ancora che nel terrore, che Babak Anvari mette in scena con il suo puro sguardo, con le sue intuizioni visive, con la sua capacità straordinaria, anche in un film forse più “funzionale” al suo accesso al cinema internazionale che profondamente ispirato quanto il precedente, di raccontare per immagini. Che siano fantasmi o telefoni, scarafaggi che camminano sulle braccia o lenzuoli che ricoprono una forma senza corpo, jinna del passato o tecnologie del presente che spariscono e poi si ripresentano, il Male giunge come una tossica dipendenza nei primissimi piani e nei campi lunghi e tremolanti, nei dettagli dei corpi in visionaria e terrorizzata trasformazione e negli scavalcamenti di campo, nei simboli che appaiono per una frazione di secondo sullo schermo e negli occhi sgomenti dei protagonisti, nelle reazioni nervose e nelle corse verso casa, ma soprattutto nel modo che ha Babak Anvari di girare guardando al paranormale, nel suo modo di immergersi e immergere nell’occulto, nel suo modo di (non) risolvere gli enigmi. Con gli effetti speciali ridotti all’osso, con un budget irrisorio rispetto alle grandi produzioni, ma anche con una capacità cristallina di sopperire alla (relativa o meno) povertà di mezzi con l’inventiva, con la rilettura dei codici cinematografici, con la forza espressiva di un linguaggio che cerca e trova la chiave per l’inconscio e per il subconscio. In attesa della sua prossima opera, del suo prossimo viaggio nell’orrore, della sua prossima occasione di dimostrare ancora una volta, magari tornando anche alle stratificazione e alla potenza politica e sociale dell’esordio, il suo limpido e assoluto talento. Un talento che va tenuto stretto, coccolato, portato avanti, lasciato libero di esprimersi e applaudito, nella speranza che il salto al mainstream internazionale – il prossimo Departure è già in pre-produzione, ancora con il colosso dello streaming a finanziarlo e distribuirlo – non diventi alla lunga per lui una gabbia. L’unico vero e malvagio orrore sarebbe tarpargli le ali.
Marco Romagna