WORKERS (2013), di José Luis Valle
Workers è essenzialmente una storia di lampadine. Un unico oggetto che accomuna le vicende dei due protagonisti, due vite parallele nella Tijuana di fine anni Novanta. Rafael è un immigrato salvadoregno che in quello che dovrebbe essere il suo ultimo giorno di lavoro decide di festeggiare l’arrivo della pensione andando a comprarsi un nuovo paio di scarpe che indosserà per l’occasione. Lidia è invece la collaboratrice domestica di una milionaria messicana, una donna malata, praticamente con un piede nella fossa. E le lampadine? Appunto. È in una fabbrica di lampadine (ma lo si scoprirà dopo oltre un’ora di film) che lavora Rafael, la Philips di Tijuana, anche se in realtà lui è un addetto alle pulizie, tiene in ordine i locali di quell’enorme e asettico stabilimento in cui si producono lampadine di nuova generazione che lo stesso Rafael si sente candidamente di consigliare agli avventori degli empori del fai da te che frequenta. La lampadina di Lidia è invece quella posizionata sopra il suo letto, una luce rossa che di notte comincia a lampeggiare quando la padrona ha bisogno di lei, cosa che regolarmente avviene da trentacinque anni, da quando Lidia presta servizio in quella casa.
Due persone così diverse, Rafael e Lidia. Lui è un uomo esasperatamente pacato, che pesa ogni parola facendola attendere ai suoi interlocutori per un tempo che pare infinito. Un uomo vinto dalla vita, si direbbe, soggiogato dall’esistenza. È partito da El Salvador, in direzione degli Stati Uniti, negli anni Sessanta, e una volta giuntovi è stato accolto con la promessa di una green card a patto di andare a combattere in Vietnam. E lo fece, partecipando – tra l’altro – all’ingloriosa offensiva del Têt del 1968. Tornò vivo a casa, ma la promessa fattagli dallo Zio Sam svanì nel nulla e fu costretto a tornare in Messico. Ed è lì che dal ’69 lavora, in quella fabbrica in cui ha trascorso trent’anni della propria vita e da cui ora dovrebbe accomiatarsi per la meritata pensione. Mentre lei, Lidia, è una donna che combina una sincera dolcezza a una quieta risolutezza. È affezionata alla sua padrona e al resto del personale di servizio, con cui condivide quegli spazi tanto sfarzosi quanto impersonali. A interpretarli, due attori sconosciuti ma straordinariamente calati nella parte: Jesus Padilla e Susana Salazar. Dietro la macchina da presa c’è José Luis Valle (a volte accreditato anche come José Luis Valle Gonzalez), cineasta cileno che dopo tre cortometraggi e un documentario si confronta con la prima direzione di un lungometraggio di finzione che purtroppo rimarrà confinato nel circuito festivaliero: Berlino, dove Valle ha il suo battesimo del fuoco, pur nella secondaria sezione Panorama; e poi Chicago, Los Angeles, Guadalajara, Spalato, Biarritz, Gerusalemme. Con vari successi, invero, ma non sufficienti a fargli ottenere una distribuzione di ampio respiro (il film uscirà soltanto nelle sale francesi, tedesche e messicane, ed è attualmente disponibile in streaming su Mubi).
Eppure, Workers è una pellicola incredibilmente affascinante, che anticipa di cinque anni (e probabilmente meglio) ROMA di Alfonso Cuarón, opera molto simile a quella di Valle, non solo per gli scenari domestici ma anche da un punto di vista stilistico. Workers si apre con un lungo piano sequenza girato sulla spiaggia di Tijuana, una lentissima carrellata che mostra poco alla volta quell’orribile barriera che divide il territorio messicano da quello statunitense, un’alta palizzata nera che seguendo il confine tra i due Stati si tuffa nel Pacifico immergendosi per alcune decine di metri. Un piano sequenza di quasi cinque minuti, che ricorda lo sciabordio dell’incipit di ROMA (ma anche la sequenza del salvataggio in mare) e che mostra in conclusione il personaggio di Rafael intento a guardare quel “muro”. Un piano sequenza perfettamente simmetrico a quello che chiuderà il film, dopo quasi centoventi minuti, con una carrellata speculare che questa volta inquadra la parte statunitense del “muro” svelando come da quella parte di esso ci sia Lidia. Escamotage banale, se vogliamo (simile a quello usato da Alan J. Pakula nel purtroppo poco citato The Parallax View), ma efficacissimo nel trasmettere – pur a cose fatte – il messaggio di questo Workers, incentrato oltre che sul tema del lavoro anche su quello dell’immigrazione.
Tutta la pellicola è dunque un grosso antefatto a quell’incipit e a quell’explicit speculari e simmetrici. Ed è il modo in cui ci viene mostrato ciò che porta Rafael e Lidia a guardarsi (inconsapevolmente?) dai due lati di quella barriera trumpiana ante-litteram. È la storia di due vite lavorative accomunate dalla drammaticità del giorno in cui i destini dei protagonisti verranno sconvolti da due avvenimenti a loro modo profondamente destabilizzanti. Da una parte la morte della padrona della villa in cui lavora Lidia, dall’altra la mancata concessione della pensione a Rafael, lavoratore (e immigrato) irregolare e come tale privo dei documenti che possano testimoniare la sua anzianità aziendale. Con un subdolo ricatto, il manager dell’azienda in cui lavora Rafael si dichiarerà impossibilitato a concedergli la pensione e anzi obbligato a segnalarlo all’immigrazione. Cosa che non farà – in un’ipocrita slancio di falso buonismo – considerati i suoi trascorsi di lavoratore esemplare, che non si è mai assentato per malattia e che non ha mai voluto fruire delle ferie: manco a dirlo, potrà tuttavia avere il “beneficio” di continuare a lavorare in quell’azienda. Alla morte della padrona, Lidia invece scopre, insieme ai colleghi componenti il personale di servizio della villa, che la signora ha disposto nelle sue ultime volontà la concessione ad essi di un altro “beneficio”: quello di non venir licenziati, a patto che accudiscano il suo amato (e viziatissimo) levriero, la Principessa, che erediterà tutte le sue sostanze. Ricchezze che verranno trasferite agli inservienti soltanto alla morte del cane (di morte naturale, precisa il notaio a scanso di equivoci). Ha inizio così lo stillicidio di due vite che si trascinano oltre quella che sembrava la sopravvenuta liberazione da un giogo pseudo-feudale. Riusciranno a farla franca entrambi, dando sfoggio di doti machiavelliche che sembravano non essere confacenti ai loro miti caratteri.
Valle affresca queste due storie minime – che hanno i contenuti di un Ken Loach e lo stile di un Bela Tarr – partendo da una propria sceneggiatura, povera di dialoghi ma adeguata ad una messa in scena affascinante e curatissima. I tempi dilatati sono essenziali a rappresentare il trascinarsi di una quotidianità alienante e opprimente nelle sue routine. Ma ciò che emerge (e si fa apprezzare) con decisione è la caratterizzazione di quelli che prima di essere due “workers” sono due persone. Uno slancio di umanità che non viene offuscato da quelli che sembrano due subplot innecessari: il passato di violenze dell’infermiera (e la relativa vendetta postuma orchestrata da Lidia) e il bizzarro rapporto di do ut des – che invero un po’ destabilizza – tra Rafael e la ragazza che gli fa i tatuaggi, avendo in cambio da lui un aiuto nel tingersi i capelli di color rosa bouganville. Digressioni innocue, tutto sommato, che contribuiscono a costruire questo dramma della modernità come mosaico fatto di tessere perfettamente incastonate, pur se alcune di esse fungono inevitabilmente da meri orpelli.
Vincenzo Chieppa