Ground Control to Major Tom
Ground Control to Major Tom
Take your protein pills and put your helmet on
Ground Control to Major Tom (ten, nine, eight, seven, six)
Commencing countdown, engines on (five, four, three)
Check ignition and may God’s love be with you (two, one, liftoff)David Bowie, Space Oddity
Non sono più gli anni Cinquanta dell’America perbenista e maldisposta ad accettare l’omosessualità di Far from heaven e di Carol, e non sono più gli anni multiformi in cui “il personaggio” Bob Dylan cambiava facce e personalità in I’m not there. Todd Haynes, maestro californiano, con il suo nuovo Wonderstruck in Concorso della 70ma edizione del Festival di Cannes si riavvicina semmai, parzialmente, alla Grande Depressione di Mildred Pierce, a quella fine degli anni Venti in cui tutto, a partire dal cinema rivoluzionato dall’avvento del sonoro, era destinato a essere rimesso ben presto in discussione. Tratto dall’omonimo romanzo illustrato di Brian Selznick – dal quale già Scorsese prese in prestito Hugo Cabret –, Wonderstruck è, ben prima che film sulla sordità, una doppia ricerca di libertà, una riflessione sul passato e sulla rappresentazione, una cartina di tornasole dell’infanzia come fiore da far sbocciare, uno specchio del passare del tempo, fra segreti da dischiudere, diorami, incubi, musei, meteoriti e gigantografie in miniatura. È una doppia Grande Mela, meta delle speranze comuni a cinquant’anni di distanza, ricostruita da Haynes in due età così lontane e così vicine, quella del Muto e quella degli hippie nei sobborghi, messe in scena con la consueta certosina cura, con la classe e con l’emozionata nostalgia da sempre che fanno grande l’autore statunitense. Anche quando si muove in territori relativamente lontani dal melò, in un qualcosa di inedito, diseguale quanto magnetico. Al contempo invasivo e accorato, come le ridondanti musiche del doppio tema principale, fra vertici emotivi e reiterazione respingente: bisogna entrarci, lasciarsi prendere per mano, immergersi.
Accolto a Cannes con generale e ingenerosa freddezza – quando non con sonore bocciature – alle prime proiezioni per la stampa, Wonderstruck sarebbe forse da considerare, nella rilucente filmografia di Todd Haynes, un’opera leggermente minore, meno “sua”, forse priva della profondità raggiunta altre volte dall’autore americano su soggetti originali e su tematiche omosessuali. Ma sarebbe anche questo atto ingeneroso, perché a volte, nel buio della sala cinematografica, è giusto che il cuore prevalga sul raziocinio, e ogni film di Todd Haynes, compreso Wonderstruck, ha un’intensità emotiva con pochissimi eguali, capace di comprimere il petto e lo stomaco dello spettatore, capace di straziarlo, dilaniarlo, farlo intimamente gioire e commuovere, capace di portarlo via, sulla strada dei sogni. È una questione che va ben al di là della (sublime) tecnica cinematografica, ben al di là dei dialoghi e dei silenzi più o meno poetici, ben al di là delle perfette ricostruzioni filologiche dell’America, e ovviamente ben al di là di qualsiasi congegno narrativo. È una questione di sguardo, di sensibilità, di cuore di un autore che, come pochi altri, sa giocare con i sentimenti, sa metterli sullo schermo, sa renderli una dolce brezza estiva ed e(ste)tica della quale ogni volta inebriarsi. Anche a costo di respingere, alla faccia di chi lo accusa di essere asettico nel suo andamento diseguale.
Wonderstruck inizia con un incubo sperimentale, con l’assalto dei lupi, con la sveglia di soprassalto, con l’urlo nel cuore della notte. È il 1977, e Ben (Oakles Fegley) si ritrova solo, la madre (Michelle Williams) di recente morta in un incidente automobilistico, il padre mai conosciuto. I ricordi, i rimpianti, la storia naturale, le stelle, Space Oddity che sembra ancora risuonare nella casa vuota: “Check ignition and may God’s love be with you”. È il momento di partire, da solo, dal Minnesota verso una New York che è l’unico indizio per cercare un padre di cui non sa nulla. Come Rose e al contrario di Rose (l’esordiente Millicent Simmons, realmente non udente), che invece, nel 1927, un padre (autoritario) lo aveva, ritiratosi nelle campagne dopo lo “scandaloso” divorzio con una madre stella del muto ormai prossima, come quasi tutte le stelle del muto, allo spegnimento. Wonderstruck è la scatola magica che intreccia le due storie, i due viaggi verso New York a distanza di mezzo secolo, l’alternanza fra il bianco e nero e il colore, fra due diversi livelli di passato, di musei e di stelle da seguire. In comune, la sordità, congenita per Rose negli anni Venti, figlia di un complotto fra il telefono e un fulmine nel caso di Ben. Una sordità che, invalidità forse peggiore anche della cecità, rende sospettosi e al contempo vulnerabili, alle carrozze che passano e ai furti per strada, alla difficoltà di comunicare e alle ossessioni. Alla musica, di cui si possono sentire ormai solo le vibrazioni con le mani sulle casse.
Todd Haynes fa procedere in parallelo le due piste narrative, intreccia i corsi e ricorsi storici, mette in scena il destino, la famiglia, le difficoltà, le rappresentazioni nella rappresentazione: la scrittura, il linguaggio dei segni, gli animali impagliati, i diorami silvestri, il set, la stanza segreta, e poi una New York in miniatura sulla quale camminare disseminando e poi ritrovando brandelli della propria storia. Sono i lunghi corridoi dei musei che, come le strade all’esterno, cambiano, aggiungono reparti e cancellate, ma mai perdono il loro fascino primigenio, la loro capacità di avvicinare al passato e all’immutabilità del monolito piovuto dal cielo nella sua striscia di fuoco.
In un costante avvicinamento della bambina del ’27 e del bambino di 50 anni dopo, si arriva all’inevitabile incontro, e al disvelamento sull’unica correlazione possibile fra i due, pronti a riconoscersi come nonna e nipote. Un’ovvietà, è vero, ma l’obiettivo di Todd Haynes, per quanto Wonderstruck navighi come mai nella sua carriera vicino ai territori del fantastico e del fiabesco, non è quello di stupire con una trama necessariamente prevedibile, ma è quello di lasciare vibrare le emozioni, fra amicizie insperate e via via sempre più sincere, mentre il passaggio dal cinema muto a quello sonoro si pone come metafora della sordità dei giovanissimi protagonisti e della (loro) necessità di comunicare, immaginare ciò che non odono e trovarsi fra le pieghe del destino, magari proprio attraverso le immagini, i libri, le vibrazioni e le ricostruzioni. Sono i ritorni sui luoghi, il cuore del film: i montaggi alternati di un destino in comune oltre le generazioni, i rapporti personali che nascono e crescono fino a soffocare i rimpianti. Mentre il vagare nel senso di vuoto dei protagonisti, fra fratelli, amici e nonne ritrovate, acquisisce sempre più sostanza e diventa spazio abitabile nello skyline in movimento della Mela, Haynes accarezza dolcemente la vista e l’anima dello spettatore con l’eleganza dei suoi movimenti di macchina, con la fotografia profonda e mai artificiosa di Ed Lachman, con i suoi vetri, con i suoi sguardi, con la sua grana (che anche stavolta fa pensare subito al 35mm, ma poi i titoli di coda svelano l’utilizzo del digitale della Arri Alexa), con i suoi pazienti ascolti, questa volta assordati, affidati a carta e penna. Con la sua attrice feticcio Julienne Moore, in un doppio ruolo nei due momenti temporali. E con, in rispetto del testo di partenza a metà fra romanzo e graphic novel, una veloce incursione nell’animazione come unica chiave per mostrare ciò che gli occhi non hanno potuto vedere. Perché è anche un film di spunti teorici sull’immagine, Wonderstruck, sulla meraviglia della messa in scena e dell’immaginazione, sul potere del cinema come tensione alla realtà e cristallizzazione della memoria, sulla sospensione dell’incredulità come unico modo per trovarsi nel destino, sul set come centro e come cuore della visione, mentre la parola si fa sempre più superflua. Per lo meno fino a quando non passerà la tempesta, come suggerisce il film muto nel film – mirabilmente girato con la leggera scattosità dei 18 fotogrammi al secondo in luogo dei 24 – che Rose guarda da bambina asciugandosi gli occhi, e forse (pre)vedendo già il futuro.
Marco Romagna