LA DONNA ELETTRICA (2018), di Benedikt Erlingsson
È oramai da qualche tempo che l’Islanda si è creata un proprio piccolo spazio all’interno della cinematografia mondiale, uno spazio sempre più caratterizzato non tanto da grande forza autoriale, ma dall’originalità e dalla freschezza delle proprie opere. Se poi aggiungiamo il periodo storico, da una crisi gravissima a una ripresa non certo indenne da perplessità, che sta attraversando la terra dei geiser, ecco che lo sguardo sul suo scenario cinematografico lo rende subito, quasi di diritto, sensibilmente più metaforico e complesso. Woman at war, il nuovo film di quel Benedikt Erlingsson già interessante nel 2013 con l’esordio Storie di cavalli e di uomini, presentato a Cannes 71 in Semaine de la Critique e in uscita in Italia con il titolo (bruttino) La donna elettrica, continua la parabola del regista attorno al popolo, ai suoi spazi e alle sue storie; è una narrazione simbolica, spesso surreale e metaforica (pur con qualche lirismo forzato di troppo) che coinvolge nella piacevolezza e nel trasporto provato per i personaggi, in particolare per la protagonista. Sullo sfondo, però, è il mutamento di una società a far pensare: è la consueta ridiscussione dello sviluppo, anche nei confronti di un luogo che sempre abbiamo pensato incontaminato (anche a ragione) e che ora vive dei problemi di ogni realtà che oggi vorrebbe evolversi rischiando di perdere radici, direzioni ed etica.
La storia gira attorno a un insegnante di musica che, nel tempo libero, si adopra nel sabotare i cavi dell’alta tensione creando blackout in tutto il paese; a fianco a lei si muovono la sorella (patita di yoga) e un dolce e solitario contadino (forse un cugino, spesso complice nel depistare le indagini nei confronti dell’attentatrice). La storia si complica quando lei viene incriminata poco prima di andare in Ucraina a prelevare una bambina che le era stata affidata dopo anni d’attesa. Saranno il destino e la sagacia della sorella a salvarla. Quello che si sviluppa attorno a questa trama esile è una sorta di galleria in cui altri personaggi compaiono (splendido il turista continuamente perseguitato dalla polizia solo per una serie di assurdi equivoci) e il paesaggio immutabile regna su tutto, scandendo il tempo di ogni azione. A fondo campo poi compare un gruppo di musici autoctoni tradizionali (inizialmente soli, poi accompagnati da un piccolo coro di ucraine) che raccorda una scena all’altra, crea accenti emotivi e spesso dialoga direttamente con la protagonista. Quasi fossero una voce di lei, contrappunto e commento di ogni azione, avvertimento morale e allo stesso tempo richiamo continuamente diegetico per lo spettatore.
Attraverso questo mosaico di personaggi, situazioni e intuizioni, Erlingsson dipana la sua riflessione, a un primo momento comica e surreale con varie venature di humor nordico spesso, per noi, di difficile assorbimento, e poi sempre più critica e metaforica nei confronti del presente (come del futuro) dell’Islanda. È la tecnologia che cambia l’uomo, senza possibilità che esso se ne accorga; ecco i visori termici e le telecamere che violano anche la notte, poi i nuovi investimenti cinesi che non guardano all’ambiente ma solo al profitto, e infine una popolazione che vede nella nostra piccola sabotatrice una minaccia assoluta. Il più grande alleato della protagonista sarà infatti, in un mondo civile crudelmente asservito alla modernizzazione, proprio la natura, che lei rispetta e conosce, non volendola dominare come proprio la tecnologia vorrebbe; sicuramente in queste scene, e in varie trovate simpatiche e grottesche, Woman’s War/La donna elettrica trova la sua dimensione migliore. Appare invece molto più forzato ogni momento lirico ostentato (il lieto finale ucraino, ad esempio), anche perché stona con lo spazio (anche emotivo) in cui il film riesce a condurre lo spettatore. In fondo, però, probabilmente prevale il piacere di averlo visto, un lavoro del genere (anche se non fosse per le risate, per l’afflato ecologista o la svolta effettiva), se non altro perché distante da tanto artifizio accademico festivaliero (spesso anche assai presuntuoso) che ormai prende sempre più il sopravvento annientando il resto. E infine, se tutto questo non dovesse interessare, rimane il fatto che l’Islanda è un posto bellissimo, anche solo da guardare al cinema.
Erik Negro