WILD MEN – FUGA DALLA CIVILTÀ (2021), di Thomas Daniskov
A volte Cannes è anche spingersi oltre le prime mondiali delle selezioni ufficiali, girare per le sale della città, scoprire all’Alexandre III, ben più di nicchia e riparato del caotico centro nevralgico del Palais, un film come Wild Men, chicca danese di Thomas Daniskov uscita già a gennaio in patria, presentata pochi giorni fa al Trento Film Festival e ora nella sezione indipendentissima Cannes Cinéma, che si svolge a latere del Festival per proporre una selezione dell’ultima annata cinematografica agli accrediti Cinéphiles ma ovviamente aperta anche alla stampa. Un film disorientante e ironico che non si lascia ingabbiare nei generi e così neanche risucchiare in un contesto specifico perché nuota un po’ in giro: varia, mischia, unisce, sbeffeggia, schifa, commuove e fa quello che vuole, già dalle primissime scene in cui un suono riecheggia nell’algida foresta montana norvegese e non si capisce se sia allegro o triste. È il pianto grottesco di un uomo coperto di pelliccia e preso da una disperata caccia con arco e ascia, che si conclude accontentandosi infine di un ranocchio arrostito in un falò davanti al fiume e vomitato poco dopo. Ecco il grande vichingo, che in realtà scopriremo ben presto essere uno dei tanti cittadini annoiati del 21esimo secolo. A tradire la sua epoca è una plastica di merendine che trova per caso e venera come un totem per quei pochi secondi che bastano a far vacillare il suo piano di auto sussistenza e farci capire che quel relitto di barretta al cioccolato non è una versione dissacrata del monolite di 2001, ma il semplice segno della vicinanza di un supermercato, alla volta del quale il nostro eroe si avventura poco dopo. Perché va bene cercare se stessi, ma è meglio farlo a pancia piena. La spedizione non è comunque meno violenta, dal momento che Martin oltre a una moglie e due figlie ha lasciato alle sue spalle anche le carte di credito, e quel pacchetto di patatine, maionese e altre porcate ben poco naturali se li deve combattere con le mani. È un’immagine che per setting e sapore bizzarro e antieroico in qualche modo riecheggia quella di Drugo in mutande tra le corsie del latte ne Il Grande Lebowski, e che dà il trigger all’azione mettendo in gioco la polizia. Lo stesso detective stagionato, malinconico e sognatore che insieme a un team pigro e improbabile (che poi a ben vedere nient’altro è che la versione meno goffa di Andy e Lucy di Twin Peaks) si mette alle calcagna prima del protagonista confuso – sul cui capo pende ora l’accusa di furto e aggressione – e poi contemporaneamente dello spacciatore – Musa – che dopo aver ucciso un alce finendoci addosso con la macchina mentre andava verso il traghetto della salvezza ruba il bottino ai due complici che crede morti e si rifugia nei boschi.
L’incontro con Martin permette il diramarsi di quella ragnatela di incastri tra plot e sub-plot che costituisce il cocktail narrativo di questo film. Se il principale è una sorta di road/buddy movie che è il cammino dei due nuovi amici ora in viaggio verso la terra promessa di una comunità di “vichinghi” per abbracciare finalmente l’autenticità della vita «com’era 7000 anni fa», il secondo si caratterizza come una sorta di thriller/giallo che, sempre sotto il macrocappello della commedia indipendente, è di nuovo quello del loro inseguimento non solo da parte della legge. Sulle loro tracce si palesa infatti l’intera famiglia di Martin, accompagnata da un coniglio che presto scapperà perché anche lui non ama stare in gabbia (un occhiolino al pubblico forse un po’ troppo didascalico), e parallelamente lo sgangherato duo malavitoso in realtà sopravvissuto all’incidente. Questi percorsi si incontreranno certamente verso il finale, ma non necessariamente tutti. La particolarità del film sta infatti nel lasciare il tessuto narrativo anche un po’ sfilacciato, come quando presenta in medias res una coppia che non fa sesso da tre mesi e che discute mentre guida tra i tornanti norvegesi solo per mostrarla scippata dai due banditi e lasciata in mezzo a una strada sperduta. Dell’uomo e della donna rimangono solo le loro immagini in lontananza – lei col pancione e lui ad andarle dietro – mentre ancora battibeccano, neanche li sentiamo, e di loro non sapremo più nulla. Ma la loro presenza effimera non è affatto di utilità secondaria, e non solo perché regala il momento forse di più alta ironia del film. La coppia costituisce una delle tessere del mosaico umano messo insieme da Daniskov, in cui i personaggi sono quasi sempre tipi – il vedovo triste, la moglie abbandonata, i cattivoni bidimensionali, il tonto, il malavitoso buono e leale e l’uomo medio – ma sempre in qualche modo veri, in quanto caricando il filtro dell’ironia, del non sensato o meglio del non immediatamente logico, la sceneggiatura porta le caratteristiche umane all’estremo e allora le mostra ancora più autenticamente proprio a causa del suo irrealismo. Come quando Martin cuce la ferita dell’amico e per distrarlo parla della colazione, delle ricette, del peperoncino: pur nel paradosso della situazione e nell’assurdità del dialogo, sono momenti in cui è facile riconoscersi. Ma non mancano momenti di serietà, come quando il regista scava delicatamente e per un attimo appena nel “tipo” per avvicinarsi al particolare, ciò che solo lui ha, che lo rende diverso dagli altri ma comunque uguale a tutti, come il detective sempre perso nei suoi vaneggiamenti sospesi che la sera torna a casa e posa la mano sul cuscino della moglie defunta, rimanendo solo col suo dolore. Si comprende dunque come questa leggerezza surreale, che a tratti ricorda la fauna del cinema di Aki Kaurismaki e a tratti quella di Adilkhan Yerzhanov, non sia scevra di profondità e di sguardo sull’umano, e il film verso il finale conferma questa portata emotiva giusto intravista in alcune scene e per il resto quasi tenuta nascosta come una sorpresa.
Se il protagonista si scontra con l’impossibilità di abbracciare liberamente una vita autentica dimentica del XI secolo che ora è veramente pronto ad abbandonare, non solo perché la sua fuga è ostacolata ma anche perché la sua terra promessa è una fandonia e i finti vichinghi nascondono iPhone e American Express sotto le loro pellicce, alla fine del suo cammino troverà la possibilità di qualcos’altro. Di rapporti umani autentici e sinceri. Come nel finale, mentre attraversa i fiordi a bordo del traghetto che era fin dall’inizio la meta ultima del viaggio di Musa, ora seduto davanti a lui mentre finalmente condividono quel pasto che hanno inseguito praticamente per tutta la durata del film, perché abbandonare le comodità della società significa anche avere fame. Ora il coltellaccio non serve a sgozzare la selvaggina ma a spezzare gli strati di plastica dell’involucro, e a tagliare un panino industriale secchissimo che ha bisogno di una bevanda ipercalorica e ipercolorata per essere deglutito. E ora condividono quella merendina – totem che segna di nuovo finalmente il ritorno con i piedi per terra. Perché in fondo è possibile sopravvivere a questo mondo che va sempre avanti, distaccato e tecnologico, è possibile sopravvivere all’ennui della vita di tutti i giorni, organizzata, schematizzata, divisa in settimane, con il lunedì che tutti odiano e il sabato di festa. Basta forse avere un amico, e la capacità di provare il bene. E la capacità di emozionarsi. Forse anche a questo serve il cinema, ad aprire la gabbia e farci scorrazzare liberi per un po’, magari per tornare all’incasellamento della vita di tutti i giorni, o magari per rimanere liberi davvero. Come il coniglio, che ora brulica l’erba ghiacciata della Norvegia mentre scorrono i titoli di coda.
Bianca Montanaro