WIFE OF A SPY (2020), di Kiyoshi Kurosawa
La puntina del grammofono scorre rapida e gracchiante sulla gommalacca del 78 giri, mentre gli ingranaggi del proiettore fagocitano la perforazione centrale del 9,5mm liberando sullo schermo gli abbracci e gli spari immaginati per gioco dai protagonisti e fissati su emulsione. A partire dal formato amatoriale non è realmente di cinema che si occupa il ricco mercante Yusaku Fukuhara, né tanto meno la moglie Satoko che si diverte solo fino a un certo punto a essere diretta dal marito. Non è certo casuale, però, che siano proprio la pellicola e la proiezione i principali mezzi con cui, attraverso i due film realizzati da protagonista, si evolveranno lungo tutto l’arco della narrazione sia la trama sia i sentimenti dei personaggi. Prodotto e realizzato in digitale 8k per la televisione, Wife of a spy è infatti prima di tutto un film sul cinema e sulle sue forme, magnificamente sospeso fra il noir, il melò, il dramma storico e la teoria (meta)cinematografica. È il sentito e stratificato omaggio di Kiyoshi Kurosawa al classicismo nella settima arte, da Kenji Mizoguchi a Orson Welles, da Shozo Makino a John Huston, da Yasujirō Ozu a Setsuko Hara, passando per Alfred Hitchcock e per l’aperta citazione di Sadao Yamanaka che negli anni Trenta dall’ambientazione storica dei jidaigeki fu fondamentale in Giappone per il passaggio alla contemporaneità dei gendaigeki. Un sentiero che in qualche modo Kurosawa percorre all’inverso, tornando per la prima volta in carriera al passato di un’epoca storica ben definita come i primi anni Quaranta della Guerra del Pacifico e della Seconda Guerra Mondiale, in quel disastroso Giappone imperialista panasiatico del Patto Tripartito con fascisti e nazisti che, negli eventi bellici intercorsi fra l’attacco di Pearl Harbor e l’esplosione di Hiroshima e Nagasaki, vedrà il Sol Levante tramontare nella maniera più dolorosa e tragica possibile. Un periodo per lo più rimosso di oscurità storica e di barbarie, di spettri del passato rimasti per troppo tempo inaffrontati e di dilemmi di coscienza. Un periodo in cui la vera follia, forse, era proprio quella di essere rimasti sani in un Paese impazzito, capace di torturare e di uccidere, di calpestare chiunque pur di coprire le proprie colpe, di incastrare e di tenere in scacco pur di non rendere pubblico un segreto di Stato. Un periodo in cui tradire quell’arcipelago nipponico deviato, capace persino di diffondere la peste bubbonica in Cina per mezzo di armi batteriologiche, era l’unico modo per non tradire la propria umanità, l’etica, la parte giusta, come un doloroso ma necessario sacrificio per qualcosa di più grande chiamato giustizia. Un periodo di sospensione fra sentimento e dovere, fra la fedeltà alla patria e quella per l’amore e la famiglia.
Se ne renderà conto per caso durante un viaggio di lavoro Yusaku, testimone involontario degli esperimenti criminali perpetrati dal Giappone in Manciuria e talmente turbato da convincersi della necessità di portare agli Alleati le prove di crimini contro l’umanità che non avrebbero potuto che trascinare gli Stati Uniti in guerra. Servirà invece lo schermo cinematografico per riportare dalla sua parte anche Satoko, quella Wife of a spy dapprima gelosa di fronte a ciò che non poteva capire e non fraintendere, ma poi spettatrice solitaria di quel rullo conservato nella cassaforte del marito e da qual momento parte autonoma e più che mai attiva, fra intercessioni e iniziative, in quel piano spionistico di cui inizialmente non era convinta. È film amatoriale di efferatezza e copia dei documenti originali da consegnare a chi avrebbe potuto cambiare i destini del mondo, a spostarne gli equilibri, impressionato quasi come fosse un J-horror sulla fisicità materica di una pellicola che è in qualche modo risposta ai dubbi della donna e sogno di salvezza, prova e memoria, realtà dei delitti bellici e finzione di quella spy story girata per gioco e per mostrarla agli amici, che i coniugi mai e poi mai avrebbero pensato potesse così presto diventare la loro quotidianità. Fotogrammi portati in gran segreto dalla Cina per farli giungere negli States, prima lasciati intelligentemente fuori campo e solo a una seconda proiezione mostrati da Kurosawa anche agli spettatori in un continuo gioco fra la detection e lo strazio, fra la sfiducia da recuperare e la fedeltà da ritrovare, fra le ambiguità di ogni storia personale e quelle di una Storia da tentare di cambiare. A costo di tradire e di essere tradita, di ingannare e di essere ingannata, persino di denunciare e di essere denunciata per aggirare i sospetti della polizia militare – comandata da un suo vecchio amico oramai reso spietato e privo di coscienza dai tempi e dal troppo potere – e raggiungere lo scopo. Wife of a spy è la storia di un amore tormentato nel ritrovarsi spie per caso, uniti contro il proprio Paese pur di non essere complici dei suoi crimini, in cui i personaggi si muovono a figura intera nello spazio fra intese e affanni, in cui i loop musicali ricordano scientificamente le suite thriller di Bernard Herrmann, e in cui la regia di Kiyoshi Kurosawa torna con i suoi quadri e i suoi movimenti alla gloria del muto e all’età dell’oro del primo sonoro senza dimenticare almeno un paio di pennellate della “sua” tipica inquietudine incubale. Non una storia di fantasmi, ma un ritorno ai fantasmi della Storia in un film d’amore e di dolore, di sospetti e di pallottole, di (s)fiducia e di saluti beffardi dal ponte di una nave.
Si apre con una lentissima carrellata Wife of a spy, quasi impercettibile, a procedere verso l’arresto per spionaggio di un innocente affarista inglese, e si chiuderà sulla disperazione e su una spiaggia dopo i bombardamenti, le fiamme e la fine della Guerra, su un urlo strozzato e su un certificato di morte probabilmente contraffatto, su un viaggio negli Stati Uniti che non sapremo mai se sia stato un ritrovarsi oppure no. Presentato, di ritorno dai confini del mondo, nel concorso principale di Venezia77 in una versione leggermente differente per montaggio, aspect ratio e color correction rispetto a quella già trasmessa sulle televisioni nipponiche, il nuovo e strepitoso lavoro di Kiyoshi Kurosawa è un film di pezzi spostati sulla scacchiera e di imprevedibilità del destino, di incomprensioni e di disvelamenti, di sospetti e di rotoli di emulsione sui quali finzione e realtà si sovrappongono, si scambiano, si sostituiscono. Un film su due distinti film amatoriali e privi di banda sonora, in cui un proiettore può essere un’arma più potente dei cannoni e in cui (ri)sentire senza (più) il grammofono una musica nella sua impossibilità tecnica può smascherarne la natura onirica e pre-ospedaliera, in un Giappone storico, ultranazionalista e imperialista spartito fra oriente e occidente. Un Giappone in cui persino un abito al posto del kimono o un whisky straniero sarebbero potuti essere considerati come un’offesa alla cultura del Paese, e del quale mai e poi mai un inguaribile cosmopolita come Yusaku avrebbe potuto accettare i crimini di guerra. Ci sono donne portate con sé dalla Manciuria che non faranno a tempo a diventare testimoni di alcun processo ma appariranno lo stesso negli incubi di Satoko come amanti di un marito del quale è sempre più difficile riuscire a fidarsi, ci sono compagni di viaggio che diventeranno complici e se necessario martiri pur di non tradire uomini e ideali che li muovono, e poi ci sono i reciproci tradimenti che non si riveleranno tali ma semplicemente tasselli di una visione complessiva più grande, fine per raggiungere il quale è lecito ogni mezzo. Ci sono cassaforti da aprire e rulli Pathé da srotolare nella luce del proiettore, ci sono arresti e scarcerazioni, ci sono appuntamenti dall’altro lato dell’oceano e i necessari inganni per poterci arrivare. Ci sono casse di legno da forare per poter respirare nella traversata e lettere anonime che la rendono impossibile per liberare il campo ad altri viaggi, ci sono finzioni che tornano sugli schermi al posto della realtà per scagionare e rendere non punibili i rispettivi amati mentre si sviano le indagini e ci si apre una via di fuga, ci sono pianificazioni di cui non serve nemmeno parlare perché in qualche modo, nella tragedia e nell’oscurità, negli sguardi e nella pellicola, fra marito e moglie sono ormai tornate la fiducia e l’intesa. O forse, chissà, a tornare sono stati solo l’inganno e la follia. Di certo non è mai andata via l’ambiguità, motore dell’ennesima spiazzante e straordinaria opera che conferma ancora una volta Kiyoshi Kurosawa come un autore fra i più indispensabili della contemporaneità. Un film profondamente affascinante e tendente all’eterno nel suo orgoglioso sistemarsi fuori dal tempo, insieme storico, politico, sentimentale, metacinematografico, teorico, sognante, imprevedibile, emozionante, classico e contemporaneo. Una perla rara e preziosa di messa in scena sulla messa in scena. Semplicemente sublime.
Marco Romagna