Era il 30 luglio 1932 quando Albert Einstein, imbeccato dalla richiesta dell’International Institute of Intellectual Cooperation di scrivere una lettera aperta a un altro intellettuale di spicco a sua scelta per confrontarsi insieme su una questione che ritenesse particolarmente pressante, prese carta e penna per indirizzare al padre della psicanalisi Sigmund Freud, fine «esperto di istinti umani», una serie di ansiose domande sulla minaccia di quella Seconda Guerra Mondiale che, nel montare della violenza nazifascista in giro per l’Europa, già sembrava molto più che uno spettro. Una lettera alla quale Freud risponderà circa due mesi dopo con una lunga e dettagliata missiva nella quale ragionare sui fondamenti psichici del comportamento fra libertà, privazione, violenza, potere, civiltà e autoritarismo, fino a definire come solo attraverso la cultura sarebbe teoricamente possibile, per quanto all’atto pratico irrealizzabile, spegnere le scintille che stanno alla base di ogni conflitto umano. Una conversazione a distanza fra due dei cervelli più influenti e decisivi (non solo) del Novecento – come entrambi i geni perfettamente sapevano del tutto «inutile» nella sua incapacità di spostare di un solo millimetro quello che sarebbe stato il corso di una Storia già irrimediabilmente incanalata verso l’apice della sua barbarie – pubblicata già nel ’33 dallo stesso Istituto committente con il titolo Why War che ora, nel 2024, Amos Gitai riprende per universalizzare e simbolicamente espandere i ragionamenti dei due scienziati verso il passato, verso il presente e verso il futuro, nell’ennesimo straordinario film del suo percorso (politico e) autoriale presentato questa volta al Lido nel ricco fuori concorso dell’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un lavoro che parte dall’archetipo stesso della guerra per estenderlo in maniera mai esplicita ma non per questo meno evidente fino all’ultimo rinnovarsi della questione palestinese con gli attacchi di Hamas dello scorso 7 ottobre e la risposta ancora in corso orribilmente vicina al genocidio di Netanyahu, passando per il ruolo che hanno oggi nei conflitti bellici le immagini che arrivano da lontano e poi spariscono nella memoria mentre la quotidianità, nella tranquilla Europa ma anche a Tel Aviv, ricomincia come se nulla fosse mai accaduto. Immagini che possono essere poetiche oppure scioccanti. Immagini allo stesso modo fotografiche, dei telegiornali, del web, del cinema e d’archivio. Immagini vere e false in cui scegliere che cosa mostrare e che cosa lasciare invece fuori dal campo, fra trauma, documentario, finzione, rappresentazione del vero, manipolazione, etica e umanità.
È per questo che, come si diceva, in Why war non serve alcun riferimento particolarmente esplicito della contemporaneità di Gaza. Ne basta e avanza, così come era già più che evidente anche nell’ormai penultimo Shikun per quanto concepito e almeno in parte girato prima del fatidico 7 ottobre (ma non ancora finito né tanto meno mostrato, in attesa di quella che sarebbe stata la prima mondiale a febbraio 2024 alla scorsa Berlinale), lo spettro che aleggia fuori campo, mentre le riflessioni del passato si rispecchiano nelle notizie e nelle tendenze dell’oggi, e Irène Jacob come una sorta di sovra-coscienza intertestuale tira le fila della corrispondenza fra Einstein e Freud meta-interpretati dentro e fuori dal palcoscenico teatrale da Micha Lescot e da un Mathieu Amalric semplicemente straordinario, fino a trovare nelle loro parole affidate alla carta il cuore del confronto dialettico, lo scambio, il comune arrovellarsi e reciprocamente arricchirsi. Eppure non è un caso che l’unico reale dialogo in un film fatto quasi esclusivamente di (inevitabili) monologhi veda Irène Jacob e il (reale) marito Jérôme Kircher discutere fin quasi a guerreggiare proprio sull’incomunicabilità che diventa conflitto anche nel privato di una coppia. Una sequenza con cui Gitai, partendo dal casus belli coniugale in cui solo uno dei due non vuole figli (reso non a caso pura finzione con una vera coppia di attori che invece nella vita ne ha due), mette in scena l’emblema del ripetersi nel micro come nel macro di quelle dinamiche psicosociali sempre identiche, immutabili e perfettamente scientifiche in ogni loro passaggio in una famiglia come in uno Stato. Dinamiche, già messe nero su bianco nello scritto di risposta di Freud che Amalric trasforma in un pezzo di cristallina bravura attoriale, che a furia di insoddisfazione e di rabbia diventano aggressività, sospetto, mancanza di fiducia e di sintonia, per molti versi messinscena con cui dissimulare il bisogno di odiare e gli impulsi distruttivi più intrinsechi dell’uomo che portano quasi inevitabilmente all’autoritarismo e alla violenza, mentre il grande autore (e se non proprio ufficialmente dissidente per lo meno grande critico) israeliano, in una babele di lingue in cui il francese si mescola con l’inglese, con l’ebraico e con qualche titolo in tedesco, stratifica ed estende ancora una volta ogni loro parola su più piani. Fra immagini d’archivio (anche personale) e meta-rappresentazioni del retropalco, dei camerini e della platea, fra Tel Aviv e Parigi, fra l’archetipo e il futuro, fra incontri fisici probabilmente mai avvenuti fra i due geniali scienziati sul palcoscenico o su una spiaggia assolata in cui ancora girare a vuoto e sempre ritornare al punto di partenza, fino all’aperto anacronismo di un’automobile contemporanea in cui far specchiare negli iconici occhiali dello psicanalista lo schermo di uno smartphone.
Basterebbe forse il pianosequenza d’apertura, folgorante subito dopo la fine dei titoli di testa che scorrono sulle prove del concerto. Un lento ed elaborato movimento di macchina che dai tavoli da sagra ormai vuoti di fronte al Museum of Art di Tel Aviv si sposta verso la sessione collettiva di yoga che si tiene dall’altro lato del piazzale, e poi si incunea nel tunnel oscuro che porterà al principio della Storia (bellica), alle guerre ebraiche contro gli antichi Romani, alla morte per suicidio pur di non farsi prendere vivi, alla circolarità di circostanze che ciclicamente si ripresentano. Un affascinante mosaico di dettagli sfumati e di dissolvenze incrociate, per un’astrazione della guerra che è prima di tutto una forma di resistenza al suo orrore e solo dopo il primo fra i tanti simboli che Gitai dissemina nello scorrere di Why war, fra una tinta ai capelli mentre il colore fa sembrare le mani insanguinate e una Pietà michelangiolesca in cui comporre l’immagine e gli attori, fra l’orrore goyano di Los fusilamientos e i binari già di Lullaby to my father che nuovamente (s)corrono fin quasi a dissolversi sotto il treno, fra i camera car laterali che si intrecciano e un bagno nudi in mare avvolti solo da un tulle, fra i sepolcri dei caduti come labirinti in cui inevitabilmente perdersi e il buio che di nuovo inghiottirà ogni immagine. Fra l’ennesimo sovrapporsi di livelli di realtà e di messa in scena quando Micha Lescot prova una parte della lettera-monologo in camerino di fronte allo specchio mentre i truccatori gli incollano i baffi, e un gregge di pecore felici di essersi fatte convincere dalla minoranza di potenti che sia cosa buona e giusta essere diventati, come tutta la maggioranza, un loro mero strumento, o forse per meglio dire la loro carne da macello da (far) sacrificare pur di vendere qualche pallottola in più. «Esiste un modo per liberare l’umanità dalla minaccia della guerra? L’aggressività umana può essere incanalata per aiutare a proteggere le persone dagli impulsi di odio e distruzione?», chiedeva Einstein a Freud per ragionare insieme sul conflitto bellico come sogno altrui che invade le vite di tutti gli altri, sull’istinto di conservazione e sull’insoddisfazione che riporta nuovamente all’odio. E lo stesso fa Gitai con Irène Jacob, che entra in scena dalle porte di un ascensore rispondendo direttamente in macchina all’amico Amos come se fosse essa stessa una lettera dell’omonima corrispondenza su cui si impernia Why war, per descrivere il suo quasi sentirsi in colpa per la vita normale lontana dagli orrori quotidiani di altri visti solo attraverso la TV. Il resto lo fanno il sigaro dello psicologo e la pipa del fisico, alla ricerca di un terreno di confronto comune con il quale tentare invano di salvare il mondo dalla distruzione, o per lo meno di respingere in qualche modo l’avanzare dell’ondata di orrore. O forse sono semplicemente due uomini, due icone, due personaggi da interpretare ancora e ancora all’infinito, fra le scenografie in costruzione e gli alter ego – di Freud, di Einstein, e poi dello stesso Gitai fra i carri armati estrapolati da Kippur e proiettati direttamente sui volti e sui corpi del coro lirico – come due inestimabili intellettuali consapevoli e preoccupati di un male ciclico e forse inevitabile, come un difetto in qualche modo connaturato nella civiltà per cui la violenza diventa legge, per cui l’umanità si fa da parte per lasciare spazio al lato animalesco, per cui si interrompe ogni linea di demarcazione fra ciò che è normale e ciò che non lo sarà mai, ma che ogni volta accade lo stesso di fronte agli occhi lucidi e impotenti delle vittime innocenti che mai e poi mai lo avrebbero voluto.
Marco Romagna