WHITE PLASTIC SKY (2023), di Tibor Bánóczki e Sarolta Szabó
È quello delle gigantesche cupole che proteggono le poche città ancora superstiti, il “cielo di plastica bianca” che si estende a perdita d’occhio nell’animazione al rotoscopio di White Plastic Sky. Vere e proprie bolle al di fuori delle quali la vita non è più possibile, nell’imperversare del caldo, del freddo e dei fulmini, ma soprattutto dei veleni con cui il pianeta sembra in qualche modo volersi vendicare di quell’umanità che lo ha sfruttato fino a portarlo alla distruzione. Una distopia post-apocalittica ambientata fra un secolo esatto, in un 2123 in cui la terra ha smesso di essere fertile, non esistono più né la flora né la fauna se non come fantasmi di ologrammi da accendere e spegnere a piacimento al passaggio delle auto, e i corpi “scaduti” degli esseri umani sono l’unico possibile terreno rimasto su cui ancora fare ancora attecchire e crescere il sostentamento per il resto del mondo. Tanto che, al compimento del cinquantesimo anno di età, tutti sono costretti a immolarsi per il bene comune, lasciandosi impiantare un seme nel cuore da cui farsi lentamente trasformare in esseri ibridi e poi in alberi mutanti, le impronte digitali come venature delle foglie e i germogli dei frutti con cui continuare a nutrire l’umanità superstite. Eppure forse, al di là della tecnica d’animazione ricalcata a mano sulle immagini girate con gli attori e di un contesto fantascientifico tanto visivamente spettacolare quanto intrinsecamente filosofico e ambientalista (i tunnel in cui sopravvivere alla furia naturale, gli arcipelaghi di serre circolari, i sarcofagi in cui addormentarsi e i fori nel terreno da cui far filtrare la luce per la fotosintesi, ma anche le montagne rossicce che si stagliano nel deserto del mondo) il sorprendente White Plastic Sky con cui gli ungheresi Tibor Bánóczki e Sarolta Szabó firmano e presentano il loro esordio al lungometraggio fra gli Encounters della 73ma Berlinale è prima di tutto una storia d’amore. Un film, struggente e disperatissimo, di sentimenti e di dolore, di un apparente egoismo che è in realtà l’altruismo infinito del sacrificio più estremo, di (non) superamento del lutto più insostenibile e di volontario annullamento dell’uno per l’altro. Un film di radici che corrono apparentemente infinite lungo i terreni più inospitali, di vecchi cinema abbandonati in cui immaginarsi ancora una volta giovani, liberi e pieni di speranze, di scheletri umani ritrovati dopo chissà quanto tempo abbracciati al tronco dell’albero che, nemmeno dopo la sua mutazione, hanno mai smesso di amare come il coniuge di una vita. Un film in tre atti – l’ultima notte prima della Piantagione, l’evasione dal vivaio/lager e la casa del Professore capace di rendere reversibile il processo che chiede nel frattempo all’ibrida Nora di comunicare con gli alberi di casa – fatto di immobilismi e di corse disperate dietro a un’auto irraggiungibile, di atti eroici e di rifrazioni, di corpi umani e di Natura, ma soprattutto di figli perduti o già mutati, da ricordare nella loro asfissiante assenza o da continuare a nascondere e curare fino alla fine dei propri giorni, bruciandone i boccioli prima che si fertilizzino velenosi sicuri di essere perdonati dall’umanità rimasta al di sotto della loro corteccia, dalla sempre identica bontà d’animo, dalla loro mancanza di volontà di diventare realmente pericolosi o peggio letali per l’uomo.
Del resto è proprio la perdita di un figlio, poeticamente suggerita con quella che era la sua biglia preferita sempre nella tasca del padre, a spingere Nora a farsi volontariamente impiantare il seme a soli trentadue anni, rinunciando agli ultimi diciotto, ed è la prospettiva di perdere dopo il bambino anche la moglie a far scattare la scintilla del protagonista Stefan, disposto a tutto pur di salvarla, pur di tenerla al proprio fianco, pur di continuare ad amarla incondizionatamente ancora per un po’ di tempo, fino all’ultimo minuto concesso, o se possibile per sempre. Eppure «sono già morta, tu non sei qui», gli risponderà Nora, appena risvegliata dal sonno eterno del processo accelerato ma ancora in lenta trasformazione. Come se il suo essersi finto, grazie alle conoscenze del fratello dj e alle falle nel rigido sistema di sicurezza aperte da un amico hacker, lo psichiatra supervisore della Piantagione, con il solo scopo di visitare il luogo proibito, di trovare l’amata appena innaffiata e di portarla via letteralmente rubandola fra gli spari delle guardie per far espiantare prima che sia troppo tardi il seme dal suo cuore, fosse stato un atto contro una scelta libera e consapevole di lei, un’intromissione nel suo dolore esistenziale, una sostanziale invasione più che un reale atto d’amore. Da una parte l’egoismo/altruismo di chi abbandona la sofferenza umana (e lascia il marito solo nei suoi lutti) per diventare sostentamento per gli altri, e dall’altro l’altruismo/egoismo di chi vuole salvare la moglie (contro la sua volontà e senza nemmeno consultarla) evidentemente per amore, ma sotto sotto (o forse soprattutto) anche per non rimanere solo. Solo uno fra i tanti dilemmi etici destinati a evolversi in dialettica, e poi in cambio di punto di vista e di conclusioni, di White Plastic Sky. In un viaggio dentro e fuori dalla cupola dall’Ungheria alla Slovacchia alla ricerca del Professor Paulik unico al mondo in grado di operare Nora prima che la mutazione sia troppo avanzata, fra le difficoltà di una Terra ormai ostile all’uomo e l’aiuto di una botanica interna alla Piantagione (a sua volta esperimento di differente e parziale ibridazione con il seme impiantato in un braccio nel tentativo illegale di dimostrare la possibilità di trovare un personale e alternativo sostentamento), disposta a sacrificare perfino la propria stessa vita (oramai breve, vista la vicinanza del suo cinquantesimo compleanno in cui il suo corpo sarebbe diventato dello Stato) pur di regalare a Stefan una fuga, un GPS con cui raggiungere la meta, ma soprattutto una speranza. Un atto di bontà e giustizia, fondamentale preludio di una traversata fra auto e skytram, fra città abbandonate e massi in volo, fra spari verso il finestrino e acque in furia incontenibile, fino alla meta. Salvo scoprire, nella comunicazione dell’ibrida Nora con i due giganteschi alberi che si abbracciano nella casa del Professore, come stia egli stesso sacrificando la sua stessa esistenza per amore e per l’amore. Un amore eterno, libero del fardello della caducità e della dannosità umanità e proprio per questo ancora più umano, tanto nel suo conversare con Nora senza bisogno di parole, ma solo di sentimenti, di vibrazioni e di fiori che si dischiudono nella notte, quanto nella sua piena e totale corrispondenza con (quel che è rimasto del)la Natura. Fino al nuovo abbraccio di carne all’interno dell’abbraccio di legno, alla commozione all’interno della commozione. Un marito e una moglie che si ritrovano fra i rami di un marito e di una moglie, nel medesimo toccante sentimento e in una nuova consapevolezza. Decideranno di farsi piantare vicini, insieme, tenendosi per mano. Finalmente felici per l’eternità.
Marco Romagna