WHITE NOISE (2022), di Noah Baumbach
Scrollatasi di dosso l’indubbiamente ingombrante etichetta di “nuovo Woody Allen”, (troppo) presto appiccicatagli più per la combo fra New York – ambientazione intellettuale e/o altoborghese – e un umorismo caustico e raffinato sempre presente nelle opere della prima parte della sua carriera che per reali contiguità artistico/produttive, Noah Baumbach, a partire dal precedente lavoro Storia di un matrimonio, ha alzato l’asticella delle ambizioni autoriali, prima con il sopracitato remake spurio delle “scene” bergmaniane e ora con Rumore bianco, in apertura e ancora una volta in Concorso alla 79ma Mostra Cinematografica di Venezia. Dopo il Bergman solo preso come nume tutelare, dunque, il Don De Lillo direttamente trasposto dalla pagina scritta alla (si sarebbe detto fino a qualche tempo fa) pellicola, con una delle sue opere più magmatiche e complesse, ritenuta per molto tempo (e forse a ragione, come vedremo) infilmabile. Non facciamo torto a nessuno, tantomeno allo stesso 53enne cineasta newyorkese, se ammettiamo di preferire alla nuova “grandeur” i più piccoli e deliziosi Giovani si diventa, Mistress America e il cult semistantaneo Frances Ha, con protagonista quella stessa Greta Gerwig oggi musa artistica e compagna di vita. Insieme ad Adam Driver, quest’ultima è anche coprotagonista del film presentato quest’anno, che solo gli addetti ai lavori e gli aficionados del Lido riusciranno a vedere su grande schermo (la distribuzione è Netflix) a meno di un veloce passaggio in “sale selezionate”, formula ormai standard anche se selezionate da chi non è dato sapere.
Baumbach, qui anche sceneggiatore unico, sceglie per il suo film la stessa tripartizione del romanzo, pubblicato a metà degli anni Ottanta ma, come tutte le grandi opere, in perfetta risonanza con lo spirito del presente. Capodopera del postmoderno letterario d’oltreoceano, White Noise è un profluvio di digressioni e riflessioni brillanti, partorite da un occhio sempre attento a posizionarsi “lateralmente” rispetto al consueto, dove il design di un tostapane o delle scatole di cereali contribuisce a formare il mondo almeno quanto elementi ritenuti più rilevanti, e forse anche di più. Il turboconsumismo eletto a più sacra rappresentazione dell’esistente, lo status socioeconomico che comincia a diventare preponderante rispetto a quello professionale e culturale, tutto quello che la Storia ci ha ormai tramandato con la formula di “edonismo reaganiano” raccontato attraverso le vicende della famiglia Gladney: Jack, Babette e due figli ciascuno portati in dote al nuovo nucleo. Ecco il primo degli elementi su cui Baumbach decide di soffermarsi poco o nulla, lasciando intravvedere le diverse appartenenze solo attraverso gli appellativi “mamma” e “papà” non coincidenti per tutti, confinati in una colazione iniziale dove la capacità, come sceneggiatore, di orchestrare dialoghi a ritmo frenetico è subito messa in bella mostra. Il film si apre, però, con un colpo di genio: il professor Siskind (Don Cheadle), collega di Jack/Adam Driver all’immaginario College-on-the-Hill, tiene una lezione sulla filosofia degl’incidenti stradali nel cinema americano, calcando la mano sulla natura intrinsecamente ottimistica di queste rappresentazioni dove varie meraviglie della tecnica concorrono, con un ultimo scoppio, a esaltare la potenza del mezzo e dell’industria, vere e proprie pause all’interno di una narrazione audiovisiva dove un balletto meticolosamente coreografato di carne e metallo solletica e blandisce l’istinto e la psiche dello spettatore. La pulsione di morte esorcizzata attraverso la sua stessa esaltazione, il primo ma di certo non l’ultimo riferimento al terrore del trapasso, che puntella tutto il minutaggio diventando a turno l’ossessione paralizzante dei due protagonisti.
E parliamone un attimo, allora, di questi due protagonisti. Jack è il primo ad aver istituito negli Usa la cattedra di studi hitleriani, pretende un corso di tedesco per i suoi allievi ma non lo parla lui stesso, si sente al sicuro con i figli intorno perché «hanno ancora bisogno di noi» e ha ereditato nel film l’adipe che nel romanzo appesantiva le arterie della sua compagna di vita, Babette detta Baba. Interpretata da Greta Gerwig, quest’ultima tiene corsi di risveglio muscolare per anziani, è frustrata dal ruolo in ombra che la vita, la provincia e il marito le hanno imposto, ha un’insopprimibile paura del trapasso e sfoga tutta la sua creatività in una capigliatura vaporosa che al supermercato fa la sua figura. La prima delle tre parti (“Waves and Radiations”) è la più riuscita e, non per caso, la più infedele rispetto alla pagina scritta, quella dove non prevale la gabbia e il timore dell’adattamento, dove i segmenti, a volte lunghi e altre brevissimi, si susseguono a ritmo sostenuto tratteggiando il Midwest Eighties e i suoi abitanti “vorrei ma non posso”. Contrapposto alla pulsione vitale del “crash” cinematografico, il complottismo è invece presentato come un’esaltazione e una continua pulsione di morte, così come le adunate oceaniche di folle inneggianti, ultimando un rovesciamento concettuale che rappresenta uno dei lasciti più fecondi dell’opera. Anche le catastrofi, interrompendo il flusso normale dell’esistenza, sono marcatori temporali in cui il dualismo vita/morte trova piena soddisfazione: un aereo precipitato, in un notiziario in Tv, è intrattenimento quanto (forse di più, SICURAMENTE di più, pensando naturalmente alla riproposizione interminabile degli schianti dell’11 settembre) rispetto a una sit-com.
La catastrofe, dunque, è assoluta protagonista del secondo segmento “The Airborne Toxic Event”: un incidente spettacolare, guarda caso, tra un treno e un’autocisterna sprigiona sostanze tossiche nell’aria, e una nube minacciosa si staglia all’orizzonte della tranquilla cittadina. La prima reazione è quella di negare la drammaticità («il vento le farà cambiare direzione», «ci penserà il governo»), ma poi arriva la violenta presa di coscienza e la rassicurante facciata di efficienza ipertecnologica va in frantumi, gettando la comunità nel caos tra quarantene e confinamenti. E a cosa si ricollegano queste ultime due parole? Naturalmente pensa al Covid anche Baumbach che, tra un omaggio a Spielberg e un “furto” a Stranger Things, dirige il segmento spingendosi in territori mai battuti, alternando totali e macchina a mano per restituire la sensazione del più totale “fuori controllo”. Il momento che preferiamo? A un certo punto i “nostri”, in macchina, si mettono a seguire un fuoristrada occupato da uomini in pantaloni mimetici e armati fino ai denti, perché «loro in questa situazione sapranno sicuramente cosa fare»; il risultato sarà solo quello di finire in un fiumiciattolo impantanati. Nei momenti di grande crisi, anche la classe borghese intellettuale rischia di venire sedotta dal decisionismo e dagli uomini forti e risoluti, almeno all’apparenza: scelta sempre scellerata e che dalla padella della crisi porta inevitabilmente nella brace del conservatorismo. La situazione sembra tornare sotto controllo e si arriva così alla terza parte, “Dylarama”, incentrata sulla dipendenza dal Dylar, farmaco sperimentale che distende, ma sarebbe meglio dire ottunde, nervi e psiche. Come si rivive la normalità dopo aver pensato alla possibile dipartita per un determinato periodo di tempo? Il film azzarda una risposta, mentre nel nostro 2022 la risposta è ancora di là da venire. La famiglia Gladney, così, diventa definitivamente l’emblema di una civiltà ormai esausta, che ha affidato agli oggetti il compito di coprire il vuoto di idee, di valori, di aspirazioni su cui drammaticamente poggia, e da cui viene risucchiata non appena qualche elemento del sistema comincia a incepparsi, a deviare da una strada e una serie di consuetudini che sembravano tracciate per l’eternità. Il film (e il parto creativo di De Lillo) sono ambientati nella metà degli anni Ottanta, ma la lunga agonia non è ancora terminata, tra sparuti alti e abissi senza fondo. Che si decida di sparare oppure di cambiare idea, la paura della morte è ancora presente, e sempre più inalienabile.
Come si spiega allora, visto il magmatico materiale appena descritto, il semaforo giallo? Perché la deferenza di Baumbach nei confronti di De Lillo è decisamente troppa, con le pagine a rappresentare una gabbia utile per delineare e dispiegare il discorso ma anche a soffocare il passo del racconto cinematografico. Una miriade di personaggi solo abbozzati (su tutti citiamo i colleghi di Jack al college), la consequenzialità dei segmenti non sempre stringente, una terza parte più anticlimatica che risolutiva che distrugge la tensione accumulata e mina l’interesse generale. Baumbach, come Icaro, si brucia tentando di avvicinarsi troppo al sole, difettando forse ancora della personalità autoriale necessaria per proporre il “suo” Rumore bianco.
Il colpo di coda, però, è magistrale: nel monumentale mega-mall dove siamo stati più volte nel corso dell’opera, sui titoli di coda, parte il nuovo singolo degli LCD Soundsystem (dopo un silenzio di circa cinque anni) “New Body Rhumba”, composto appositamente per il film, e tutti, personaggi e semplici comparse, intraprendono un ballo folle ma coordinato, libero e schematico al contempo. Una danza contro la morte forte di una vena umoristico/satirica originale e calzante che avremmo voluto trovare più volte nel corso delle due ore abbondanti di proiezione, e che invece arriva troppo tardi, come una hit dal ritmo irresistibile proposta solo dopo tre pezzi svuota-pista a fine serata. È di fatto solo lì che il rumore bianco, il suono perennemente sullo sfondo del capitalismo eletto ad ecosistema da cui non si può più prescindere, tra sfrigolii, voci dagli schermi ed elettrodomestici risucchianti preziosa energia, può essere per un breve momento messo da parte.
Donato D’Elia