WHEN THE WAVES ARE GONE (2022), di Lav Diaz
Si deve risalire a Batang West Side (West Side Avenue), del 2001, il primo film personale di Lav Diaz, per trovare già una figura di cattivo tenente, un ufficiale di polizia marcio e corrotto, nel cinema del regista filippino. Si trattava di un film ambientato negli Stati Uniti, dove lo stesso regista ha vissuto a lungo, nel New Jersey tra gli immigrati filippini. Un sottobosco di delinquenza, dove motivo di orgoglio nazionale per quegli immigrati era rappresentato dalla droga dello shabu, importata dalla madrepatria, spacciata e consumata da alcuni personaggi del film che la vedevano come un volano economico in grado di riscattare un Paese povero e martoriato, il petrolio delle Filippine. Un omicidio irrisolto diventava la facile metafora di uno Stato in qualche modo ucciso da tutti, martoriato nella propria storia da colonizzatori, dittatori e cataclismi naturali. E invece della soluzione del whodunit poliziesco si scopriva il passato del cattivo tenente nelle Filippine, di infiltrato nei movimenti di sinistra e di artefice dell’eliminazione di molti loro leader durante la dittatura di Marcos. Addestrato in ciò nella famigerata accademia militare americana di West Point.
Dopo ventun anni i cattivi tenenti tornano nel cinema di Lav Diaz, nel film Kapag wala nang mga alon (letteralmente “Quando non ci sono più onde”, da cui il titolo internazionale When the waves are gone), presentato fuori concorso alla 79 Mostra di Venezia. E la figura dell’ufficiale di polizia si sdoppia in due personaggi, Hermes Papauran e Primo Macabantay. Il primo, più giovane, si scoprirà essere stato allievo del secondo, il quale è uscito di prigione e gode di protezioni dall’alto che lo coprono purché possa compiere affari sporchi. Attorno alle parabole di queste due figure si costruiscono le due linee narrative principali, con tutte le varie sottotrame che poi si ricongiungeranno alla fine, con la classica staffetta dei personaggi che passerà per la sorella di Hermes, Nerissa, che vive in campagna e simboleggia un’innocenza contadina. Papauran è mostrato all’inizio nei suoi corsi agli allievi delle forze dell’ordine. Si occupa di cold case, ovvero di delitti irrisolti, come in un’ideale ricongiungimento al delitto impunito, senza castigo, di Batang West Side. Il cinema di Lav Diaz, del resto, ha sempre tratteggiato un Paese colmo di cadaveri occultati nel sottosuolo, vittime della dittatura. E dopo il suo A Tale of Filipino Violence, presentato solo pochi mesi fa al FIDMarseille, focalizzato ancora una volta sulla legge marziale di Marcos, Lav Diaz torna nel presente con un film politico diretto, sporco, potentissimo. Dove non esita a lanciare strali verso il presidente Rodrigo Duterte, citandolo espressamente. Il presidente del Paese che nemmeno si preoccupa più di occultare i cadaveri che ha prodotto, nascondendoli in fosse nella giungla come i desaparecidos dell’era Marcos, e che anzi esibisce lasciandoli per strada con il cartello «Sono uno spacciatore di droga». L’impunità regna ancora una volta sovrana. E quella droga, come lo shabu che per qualcuno poteva avere addirittura un ruolo salvifico nella disastrata economia del Paese, ora diventa un marchio di infamia quando non un pretesto per far fuori chi dà fastidio.
Le forze dell’ordine, nel Paese governato da Duterte, non sono adibite a far rispettare le leggi, con buona pace di Hermes, ma a fare pulizia, a detergere dalla sporcizia umana, o ciò che è considerata tale, in nome di un ordine esteriore dal sapore fascista. La purificazione è come quella del battesimo che Primo costringe a far fare alla prostituta, prima di intrattenersi con lei, immergendole la testa nella tinozza d’acqua ma provocandone la morte per asfissia. Una repressione grossolana tutt’altro che chirurgica, un castigo che miete vittime anche tra gli innocenti. Primo Macabantay è l’erede di tutta una serie di personaggi del cinema del filmmaker filippino nonché l’incarnazione di Marcos, Duterte e via dicendo. È stato in carcere ma è stato riabilitato proprio come la figura di Marcos, in quel clan che ora è tornato al potere con il figlio. Ufficialmente potrebbe essere proprio uno degli sgherri di Marcos ora riabilitato e rimesso in circolazione. Un giano bifronte come Narciso in Season of the Devil, un integralista religioso e un pervertito, e un corrotto. Un santone fanatico che pure segue una tradizione nel cinema di Diaz, si pensi a Padre Tiburcio di Century of Birthing con quegli stessi stacchi musicali, di inni religiosi forzati e a cappella, all’interno di un cinema che ha ben inquadrato quella religiosità mista a superstizione profondamente radicata nel popolo filippino (si pensi a Himala, il classico film di Ishmael Bernal). La figura di Hermes è quella di un disilluso, che non può che accettare la piega presa dal Paese. Nel film diventa il soggetto portatore di malattia, spesso presente nel cinema di Diaz. La sua psoriasi è il disfacimento cutaneo, la desquamazione morale, lo struggimento tra essere e apparire. L’incontro/scontro dei due personaggi arriverà alla fine, come un duello tra il brutto e il cattivo. Un finale lungo, estenuante e proprio per questo così nerboruto e commovente, dove Lav Diaz abbandona ogni orpello per un atto politico diretto, durissimo, sconsolato, amarissimo. Fa nominare Duterte ai suoi personaggi che avvisano che no, non si è più in un film, non c’è l’happy end. «Affanculo le Filippine!»: nessuno arriverà a soccorrerli. La sofferenza del Paese è infinita, perpetua, si rinnova ciclicamente. In quel Paese dove, come si dice nell’ennesimo capolavoro diaziano, forse addirittura il migliore degli ultimi anni, tantissime vie, in tutte le città, sono dedicate a José Rizal, il padre dell’indipendenza nazionale. Ma ogni spinta di liberazione ha il contraccolpo di una sconfitta. Giornalisti, artisti, rivoluzionari rischiano la vita nelle Filippine, si dice ancora. Ed è (anche) su questo che Lav Diaz firma un atto d’accusa a proprio rischio e pericolo.
Ancora Diaz gioca con un impianto letterario di riferimento, qui Il conte di Montecristo di Dumas con echi immancabili dalla letteratura russa, per interpretare la realtà. E inserisce la figura interna di un documentarista, tipica del primo cinema di Diaz anche in Batang West Side, come scomposizione interna dei punti di vista. Qui il personaggio è quello, realmente esistente, di Raffy Lerma, fotogiornalista specializzato nel sociale. In Norte, the End of History, Lav Diaz tradiva uno degli assiomi del suo stile, ovvero la fotografia in bianco e nero, per colorare il nucleo del male, nella terra natia di Marcos, nel contrasto con la bellezza da cartolina di quel territorio. Ora, con le (sole) tre ore di Kapag wala nang mga alon arriva un’altra volta a quella che Nagisa Oshima definirebbe quale una negazione del proprio sé stilistico. Il digitale che i registi filippini, della generazione di Diaz come di quella successiva, è stato considerato come la teologia della liberazione, viene accantonato per un film in 16mm, curatissimo nella sua polvere e nei suoi tagli di luce fotografica. Il tutto funzionale all’atmosfera brumosa e piovosa da noir hard-boiled, restituita in una sgranatura materica tipica della pellicola. Ancora il conflitto degli elementi fa teatro alle vicende, fino però ad arrivare al loro annullamento nel nitore finale, all’annullamento di qualsiasi immagine poetica, come di ogni possibilità di contrasto. Per arrivare là, dove non ci sono più onde.
Giampiero Raganelli