WESTWORLD – Dove tutto è concesso (Stagione 1) (2016), di Jonathan Nolan e Lisa Joy

Se raramente su questo sito ci ritroviamo a parlare di serie TV è perché le serie sono un oggetto relativamente distante dal cinema, con ritmi diversi, tempi di stagnazione diversi e un diverso approccio alla materia narrativa e al suo fluire sia da un punto di vista commerciale sia da un punto di vista di percezione dello spettatore. Ma è anche perché la serie TV è tendenzialmente un’operazione che, anche al massimo della propria intelligenza e costruzione psicologico-stilistica (v. The Wire o I Soprano, o anche Breaking Bad che pur con i suoi difetti è diventato un punto di non ritorno nella cultura pop), punta a uno sviluppo vendibile e a una relazione tra prodotto e audience che non si coniuga alla perfezione con ciò che richiede il cinema, in particolare quello d’autore. Ma la televisione d’autore, nel bene o nel male, esiste: c’è Horace and Pete, c’è The Knick, ovviamente c’è Twin Peaks, ma sono tutti prodotti singoli, unici nel loro specifico genere, tra la resa teatrale dell’esistenzialismo del primo, l’insieme perfettamente riuscito di estetica indie e ricostruzione storica del secondo e l’influenza universale della serie di Lynch e Frost e del film a essa legato; e infatti tutti questi prodotti tendenzialmente durano poco, volontariamente o meno, e si fermano a una o due stagioni per poi essere, al massimo, resuscitati in un qualche sforzo ultimo di riportare in auge un mondo che ha ipnotizzato fino al fanatismo così tanti spettatori – e questo succederà presto appunto con Twin Peaks, proprio quest’anno. In un’epoca come quella corrente, le serie TV si sono complessificate al punto da essere sin troppo spesso paragonate al mondo del cinema in infelici confronti che spesso risultano quasi dissacranti – cosa che ora sta succedendo pure con gli youtuber. I principali prodotti seriali di successo dunque finiscono per essere, nel bene e nel male, le sit-com e le serie TV ad alto budget. Ed entrambi sono mondi che al loro interno includono una marea impressionante e variegatissima di conflitti di qualità e di interesse, tra guerre tra canali televisivi e servizi streaming (con il colosso Netflix che, proprio per la sua inevitabile comodità, sembra lavorare sempre di più ai danni della purezza di certi aspetti distributivi e intellettuali sia del cinema sia della televisione) e ovviamente gli alti e i bassi di ogni categoria e di ogni genere, tra la discontinuità nel ritmo de Il trono di spade e il lento e inesorabile calo esponenziale di successo di The Walking Dead e derivati. In tutto ciò, a elevarsi sugli altri canali televisivi è sempre l’HBO: le celle di Oz, i dialoghi tragicomici de I Soprano, l’atmosfera indie e mortifera di Six Feet Under, il giornalismo corale e umano di The Wire, il marciume delle taverne e dei bordelli di Deadwood, l’approfondimento storiografico e psicologico di Boardwalk Empire, e così via. Successi di pubblico universali (True Detective e Il trono di spade in cima, per quanto riguarda la programmazione corrente), ma anche un legame indissolubile con l’apprezzamento dei critici per quanto riguarda le scelte magari più eccentriche e particolari (e non possiamo non nominare The Young Pope). L’HBO è il principale mezzo di divulgazione di grandi drammi televisivi, ed è abbastanza indiscutibile la sua influenza sull’immaginario collettivo, sia da un punto di vista prettamente pop sia da un punto di vista umano, storico, qualitativo – e ciò vale anche considerando la rivalità con Netflix con le sue simili politiche sulla censura, o meglio sulla sua assenza. E non poteva dunque che fuoriuscire dall’HBO un qualcosa di alienante come Westworld, serie per ora ferma alla prima stagione, prodotta con un budget altissimo che fortunatamente ha recuperato in maniera abbondante con un enorme successo di pubblico.

Nota in Italia anche col sottotitolo idiota Dove tutto è concesso, Westworld è una serie prodotta da J.J. Abrams e ideata da Lisa Joy e Jonathan Nolan, cervello principale dietro le sceneggiature dei film più belli del fratello Christopher (MementoThe Dark Knight e The Prestige), e tratta dal film d’esordio di Michael Crichton, Il mondo dei robot (1973). Scrittore prevalentemente fantascientifico a cui dobbiamo anche il romanzo di partenza di Jurassic Park (1990), Crichton con questo film, che in lingua originale si chiama come la serie, aveva tendenzialmente creato un’idea che poi Nolan e la Joy hanno costruito in maniera estremamente più complessa e stratificata: quella di un conflitto tra uomo e macchina in uno sconfinato parco giochi per ricchi, in cui le macchine hanno il ruolo di “finti abitanti” di un territorio ispirato, per costumi e ritmi, al mondo dei film Western. Ma mentre il mondo western de Il mondo dei robot era un mondo davvero citazionista (e autocitazionista: uno dei robot principali è interpretato da Yul Brynner, tra i protagonisti de I magnifici sette (1960) di John Sturges), il mondo western di Westworld si presenta subito come un mondo da cartolina, plastico e privo di un’anima perché costruito da esseri umani che hanno tendenzialmente perso l’umanità. Come ci si può aspettare da una serie scritta in gran parte da uno dei fratelli Nolan, la narrazione di Westworld, tra una ragnatela di trame che si incrociano, memorie costruite artificialmente e deliri onirici, è frammentata, imprevedibile, fitta di colpi di scena fino a un generale senso di spaesamento costante. Riassumendo in maniera più allargata la trama, senza fare spoiler, si può dire che: in un futuro indefinito, l’avanzamento della tecnologia ha portato alla possibilità di costruzione di androidi semiumani detti “residenti” (con tanto di sangue e viscere) che vengono usati come “comparse”, appunto, in un finto mondo western. I residenti sono dotati di una specie di coscienza parziale, che si “attiva” solo quando gli scienziati interagiscono con loro in laboratorio, sperimentando, analizzando e curando i loro corpi e le loro menti. I ricchi e agiati, detti “ospiti”, visitano questo mondo per coronare le loro fantasie, osservare i residenti per poi ucciderli, farci sesso, entrando in storie e trame che tanto i residenti non possono che dimenticare il giorno dopo, dopo essere stati privati di memoria e ripuliti per essere riportati nel loro mondo artificiale, destinati a vivere di nuovo e a morire di nuovo all’infinito, senza invecchiare – mentre la tecnologia del posto fa in modo che gli ospiti possano provare dolore fisico senza mai morire davvero. Con questo contesto di partenza, una trama non può che svilupparsi mediante approfondimenti su determinati personaggi, sulle loro storie e sulle loro tragedie e su come loro possono cambiare la situazione. E dunque Westworld ricade in una categoria ampissima di serie TV “corali” (come Twin Peaks, Il trono di spade, The Wire, Orange is the new black e tante altre), ma, a differenza di queste, ha la grande caratteristica di avere già avuto in una sola stagione molteplici personaggi ognuno con un proprio sviluppo psicologico abbastanza approfondito da rendere utile ogni singolo volto, nome, corpo.

Quindi, per i personaggi di Westworld è necessario fare un piccolo elenco, in ordine assolutamente casuale: 1. Il personaggio più vicino ad essere una protagonista della serie è probabilmente Dolores, interpretata da Evan Rachel Wood, uno dei primissimi residenti mai costruiti, un personaggio progettato per essere una superficiale ragazza di campagna ma che da sempre, per qualche ragione, ha una coscienza superiore rispetto a quella degli altri, tanto da ritrovarsi immischiata in svariate faccende in cui sembra palese il suo coinvolgimento e la sua conoscenza di determinati aspetti artificiali del teatro-mondo in cui vive; 2. Maeve, interpretata da Thandie Newton, una residente di colore direttrice del bordello che si trova all’inizio di Westworld, ossessionata da ricordi di una sua “vita passata” in cui viveva da sola con una figlia, ricordi attraverso i quali comincia anch’ella ad avere una coscienza “ribelle” contro l’istituzione che l’ha creata; 3. Bernard (Jeffrey Wright), uno degli scienziati principali a lavorare per il parco; 4. Il cosiddetto “Uomo in Nero” (Ed Harris), un brutale ospite del parco che si tramuta in cowboy vendicativo per una strana missione solitaria; 5. William (Jimmi Simpson), un ricco e giovane ospite di Westworld che non vi è mai stato prima, e che, innamoratosi di Dolores, cerca di capire la propria natura e quella del posto; 6. Teddy (James Marsden), un residente innamorato di Dolores; 7. Clementine (Angela Sarafyan), una residente che si prostituisce nel bordello di Maeve; 8. Hector (Rodrigo Santoro), un residente criminale ricercato e carismatico; 9. Arnold, co-creatore del parco morto misteriosamente anni prima all’interno di esso, la cui influenza sembra risuonare a volte nelle menti dei residenti. E poi Theresa, Elsie, Ashley, Charlotte, Lee e vari altri che hanno ognuno uno scopo diverso nel mantenere il parco sicuro da confusioni e incongruenze, intrighi e malfunzionamenti. Tra tutti i personaggi però, oltre all’Uomo in Nero e a William che sono forse i protagonisti (im)morali di tutta la storia, non può che spiccare il fondatore del parco, una morbosa figura paterna manipolatrice, un vero antagonista tragico e ambiguo, ovvero il personaggio interpretato da Anthony Hopkins. Il nome del personaggio peraltro è geniale: Robert Ford infatti è un riferimento a ben tre figure storiche, il criminale Robert Ford (che uccise Jesse James, come ricorda il meraviglioso film di Andrew Dominik del 2007), Henry Ford, lo storico pioniere del “welfare capitalism”, e ovviamente John Ford, il classico regista western di capolavori come Ombre Rosse (1939) e Sentieri Selvaggi (1956), quest’ultimo citato nella regia del primo e dell’ultimo episodio della stagione – entrambi diretti da Jonathan Nolan.

Westworld funziona ottimamente su svariati livelli e con svariate chiavi di lettura. Funziona bene come inversione degli stereotipi del combattimento tra androidi e umani, con gli androidi che risultano più umani degli umani a causa dei traumi pregressi che paradossalmente gli umani stessi instaurano nella loro memoria; e funziona bene come labirinto di suggestioni visive che si trasformano in incastri narrativi, con una serie non indifferente di dialoghi brillanti e sorprese notevoli, un po’ per incongruenza tra le narrazioni e un po’ per finezze nella resa dei flashback di tutti i protagonisti. Con un po’ di azione cruenta e un erotismo freddo e respingente, Westworld sicuramente non è una serie perfetta: la parte centrale della serie è più lenta, l’artificiosità del mondo western posticcio è sicuramente consapevole ma a volte (soprattutto se si conosce un minimo il vero cinema western) sembra davvero una parodia di un cliché, e ci si può irritare di fronte alla ripetizione ossessiva di determinate scene o dialoghi giusto per suggerire indizi che comunque lasciano poco spazio alla comprensione. Detto ciò, Westworld riesce in una cosa rara e da salvaguardare, ovvero l’unione tra la serie TV ad alto budget e la serie TV d’autore. Il sottoscritto, devo ammetterlo, ammira poco i fratelli Nolan e le sceneggiature cinematografiche scritte dai due, eccetto che in rari casi come soprattutto il succitato Memento; ma è ormai indubbio, dopo centinaia di discussioni (anche all’interno della nostra piccola redazione), che i fratelli britannici non siano certo semplici mestieranti, ma autori a tutto tondo, che scrivono e che dirigono, che mettono su carta le proprie ossessioni per poi tramutarle in colossali mostri cinematografici iconici e destinati a rimanere nell’immaginario collettivo. E Westworld dà subito l’idea di un cambio di stile notevole per Jonathan Nolan, perché, con il tipo di trame complesse e cervellotiche a cui ci ha abituato, forse il format televisivo è più adatto: gli “spiegoni” vengono diluiti, i momenti emotivi hanno più spazio per avere un contesto e un impatto, e pure gli aspetti meta-artistici e meta-mediatici a cui entrambi i fratelli tengono molto hanno più spazio per riflessione e trattazione. Ad esempio, possiamo porre un paragone tra Inception (2010), che in realtà è stato scritto da Christopher Nolan da solo ma ci pare giusto immaginare i due autori come facenti parte di uno stesso microglobo di pensiero filmico, e appunto Westworld: mentre Inception usa l’idea del sogno come scatola cinese per dimostrare le potenzialità del mezzo-film (e il film nel film, che non ha nulla di davvero onirico o metafilmico nella scenografia se non degli effetti speciali basati sul catastrofismo), Westworld mostra, sia con i flashback sia con la scenografia del mondo western e della base di scienziati, molteplici aspetti del conflitto tra la realtà e la finzione, portando a molte più riflessioni oltre il semplice “qual è la realtà e quale no?”. E la riflessione e l’enigma sono indubbiamente parte integrante dell’interesse verso Westworld, a partire dall’attrazione dello spettatore verso misteri quali la natura e il contenuto della nuova trama di Ford (che finisce per essere più un violento tributo a Arnold che un contrattacco in ritardo) e il significato del labirinto. Il labirinto, ad esempio, appare in continuazione come monito di un significato “più profondo”, lo stesso significato che l’Uomo in Nero sembra cercare e che Bernard descrive come “non un viaggio verso l’alto ma verso l’interno”. L’ossessione della ricorrenza di questo simbolismo rimanda alla mente sia i numeri 4-8-15-16-23-42 di Lost sia la trottola e il treno di Inception, ma la sapienza dietro il tormentone del labirinto sta nel fatto che è tutto un costrutto interno ad un mondo fittizio: insomma, non è solo un mistero che gli spettatori devono svelare, è anche un mistero che i personaggi devono svelare, appartenente a una mitologia fantascientifica e narrativa che è interna al mondo western, e quindi alla scenografia dentro alla scenografia, al mondo dentro al mondo.

Certo, diciamo spesso che Lost (anch’essa serie prodotta da J.J. Abrams, e ci sono un paio di riferimenti molto poco velati) ha cambiato irreversibilmente la narrazione televisiva, il suo scorrere e i suoi sottotesti, e Westworld sicuramente da esso prende l’incrociarsi continuo di intrighi senza risposta. Ma in una sola stagione la serie di Nolan è riuscita a raggiungere un livello di consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti che invece Lost non ha, causa eccessive lungaggini a vuoto e carenza di risoluzione persino per gli enigmi più radicati e integrati nello sguardo degli spettatori e dei fan. Speriamo dunque che Westworld riesca nell’arduo compito di essere coerente con il proprio universo folle e misterioso, e che rimanga denso e intenso con i suoi caratteristici e curati dialoghi pregni di riferimenti biblici, dubbi etici sulla differenza tra assenza di coscienza e assenza di libero arbitrio e sulla differenza tra il mondo di Westworld e il mondo reale, menzogne disumanizzanti, giochetti moralmente superficiali e teorie psicologiche prese in prestito da Julian Jaynes; tutte cose che non possiamo forse commentare con i nostri mezzi, ma che sicuramente vengono spiegate in maniera notevole in questo video. E in tutti questi dialoghi e in tutte queste fisime mentali, si possono riscontrare ben tre chiavi di lettura: un commento, che crediamo di aver già ampiamente messo in discussione, sulla tecnologia e dunque sulla ribellione degli androidi messa in atto grazie a (o per colpa di) Ford; un commento sui media del cinema e della televisione; e un commento sullo sfruttamento dei corpi da parte del capitalismo. Per il commento sui media del cinema e della televisione, in particolare, non si può che pensare a come Westworld sia raccontato come un mondo creato per le fantasie degli ospiti e per rispondere alle esigenze di intrattenimento di questi spettatori di tutte le età e di tutti gli orientamenti sessuali (se c’è una cosa infatti assolutamente “futuristica” nel Far West artificiale è lo sdoganamento totale della sessualità); si tratta insomma, se vogliamo, di un’enorme sala cinematografica interattiva, soprattutto se consideriamo vera l’affermazione di Slavoj Žižek «Il cinema è l’arte più perversa di tutte». E sì, la serie TV non avrà lo stesso approccio che ha il cinema, ma i media sono destinati a influenzarsi a vicenda, a commentarsi a vicenda, a comprendersi, studiarsi, penetrarsi l’uno nell’altro: il western è un genere più filmico che televisivo, nonostante le dovute eccezioni (v. Deadwood), e quindi l’immersione che Nolan richiede ai suoi spettatori è un’immersione dal mondo di un medium al mondo di un altro medium, con rotture della quarta parete che sbilanciano le certezze quasi come, osiamo questo paragone, la scena di «sembra un dialogo del nostro film» di INLAND EMPIRE (2006). E per quanto riguarda i corpi, la nudità integrale è una delle cose che più colpiscono l’occhio nella serie: i corpi dei residenti sono spesso mostrati, durante le analisi dello staff, completamente nudi, spogliati di un significato, puri come Dio (=Ford) li ha fatti; ciò non è solo per dimostrare l’umiltà tragica di queste vittime dell’uomo che vengono costantemente punite per le responsabilità di chi li ha creati, ma anche per dimostrare al meglio la fisicità, la carnalità di questi corpi umani sfruttati come oggetti metallici. Cosa che sono, forse. E si ritorna dunque al dilemma del robotico, dell’artificiale, del finto/fittizio che diventa cinematografico: è tutto collegato.

Certo, Westworld non sarà un capolavoro, magari per la regia estremamente convenzionale la maggior parte del tempo, o per la colonna sonora onnipresente e semplice di Ramin Djawadi (che a volte tuttavia ha dei colpi di genio, con cover strumentali di gruppi come Rolling Stones, Cure, Soundgarden, Nine Inch Nails e soprattutto a più riprese i Radiohead), ma è solo una boccata d’aria fresca. Perché il complesso stile di scrittura dei Nolan è perfetto per la televisione, perché la tensione non smette mai di sorprendere, perché i personaggi e gli attori sono incredibili e perché, nonostante la qualità non sia la più alta della storia della TV, si riesce comunque a scrivere tanto, a dire tanto, e a non riuscire comunque a dire tutto. La politematica scatola delle meraviglie che costituisce la serie speriamo non smetta mai di stupirci come ci ha stupito questa prima stagione, aspettando (e prevedendo) la strage della prossima, che dovrebbe giungere a inizio 2018. E resteremo qui, in attesa, come gli ospiti del parco, viziati dalla corporeità magica e superficiale dei nostri schermi pieni di immagini di corpi e metallo. Pronti a entrare nel loro labirinto, e a stare al gioco.

Nicola Settis