All’esplosione dell’ennesima granata, il soffitto della cantina inizia a cedere. Immediatamente fuori da quelle quattro mura c’è la trincea, ma la guerra non si ferma con un semplice strato di legno: la guerra è anche dentro, pesante e oppressiva come quel soffitto che viene puntellato da tre soldati come colonne umane schiacciate tanto da non riuscire quasi più a respirare. La guerra è folle, la guerra è inevitabile, la guerra è distruttiva. La guerra incombe, soffoca, uccide. In questa immagine, già presente dopo pochi minuti, si può riassumere tutta la portata antibellica di Westfront, primo film sonoro di Georg Wilhelm Pabst. Un film del 1930, ma con idee di cinema e sociali avanti anni luce rispetto alla datazione, restaurato dalla Deutsche Kinemathek in collaborazione con il BFI per riportarlo agli originari 96 minuti e presentato al Cinema Ritrovato 2016 di Bologna. Westfront è un film visto troppo poco e ingiustamente dimenticato, vietato dal regime nazista immediatamente dopo l’ascesa e distrutto in buona parte delle copie proprio perché capace di mostrare con un realismo estremo e una cupa rassegnazione tutti gli orrori e le assurdità della guerra. E Pabst, con quel punto interrogativo in fondo al cartello “Ende?” tre anni prima dell’ascesa di Hitler, aveva in effetti già capito tutto…
Ma andiamo per ordine. Westfront, in misura ben maggiore rispetto alla media della Nuova Oggettività tedesca, anticipa il Neorealismo e la modernità cinematografica con un’aderenza alla realtà che si fa cruda, devastante, meravigliosamente insopportabile nelle sue forme quasi documentaristiche nella minuziosa ricostruzione di quel tempo – 1918, gli ultimissimi mesi della Prima Guerra Mondiale – e di quella realtà – la trincea tedesca in terra francese. Agli albori del cinema sonoro, Pabst porta sugli schermi il boato sordo delle granate, le urla di dolore di chi ha perso qualche arto, lo sfrigolio metallico delle mitragliatrici che sparano e uccidono. In Westfront la guerra è un girone infernale, è una progressiva discesa nell’orrore, è la felicità illusoria della storia d’amore tenera e impossibile fra il giovane soldato tedesco e la contadinella francese, quindi “nemica”, contrapposta alla prospettiva funerea che fa preferire al marito tradito per fame la lealtà dei commilitoni all’amore della moglie, fino alla sua volontarietà in una missione pressoché suicida. Ma non cambia molto, nell’essere volontario o meno, perché quasi nessuno sopravviverà: muoiono i soldati, muoiono i civili, dilaga la fame con code infinite alla borsa nera, i silenzi sostituiscono i litigi, fino alle pallottole e alle bombe. Rimangono i corpi frettolosamente sotterrati, rimane la pioggia di terra dopo le esplosioni a ricoprirne ancora una parte, rimangono i feriti, rimangono gli invalidi senza gambe, rimangono gli scemi di guerra, quando quella che oggi chiamiamo sindrome post traumatica da stress diventa irreversibile. Pabst nel 1930 metteva in scena l’orrore per lanciare un grido di pace rimasto drammaticamente inascoltato, firmando un film che ancora oggi risulta lacerante, potente, per molti versi definitivo. C’era infatti già tutto il cinema bellico successivo, in Westfront 1918, da La Grande Guerra ad Apocalypse Now, da Orizzonti di Gloria a Torneranno i prati: Pabst parla della guerra in tutti i suoi aspetti, dalla leale amicizia fra compagni di (s)ventura alle ripercussioni sui civili, dall’assurdità della stessa perfettamente racchiusa nella storia d’amore “internazionale” all’inevitabile morte, fisica e morale, di chi la guerra è costretto a farla e in fondo non sa nemmeno il perché. C’è l’orrore delle scene di battaglia rese con cruda veridicità visiva e sonora, c’è la profondità del messaggio pacifista, c’è la minuziosa descrizione della vita in trincea e della vita in città, c’è l’attesa, c’è la perdita, c’è il vuoto. C’è l’ufficiale impazzito, c’è la mano dello Studente che spunta inerte da un cumulo di terra. C’è una rassegnazione che nient’altro era che una presa di coscienza. Fino a quel punto interrogativo, quella fine illusoria che si è rivelata l’alba di un capitolo della Storia forse ancora peggiore.
Elemento fondante del cinema di Pabst tutto, compreso questo sublime Westfront, è il montaggio. Un linguaggio cinematografico fatto di inquadrature secche spesso incentrate su un filo spinato come costrizione quasi biblica, elegante nella fotografia cupa e drammatica. Pabst alla moviola ha giocato con il ritmo, ha dilatato e compresso i tempi, ha ridotto all’osso la narrazione per concentrarsi sulla metafora e sulla rappresentazione quasi macabra dalla quale far scaturire – almeno idealmente, la Storia dice purtroppo altro – un immediato rigetto e una reazione pacifista e internazionalista da parte dello spettatore. Le vicende dei soldati messi in scena sono episodi, piccoli paradigmi pronti a intrecciarsi nell’orrore, nelle buche nel terreno, nelle cannonate, nelle trincee dove non si capisce più dove finisca il sangue e cominci il fango. Ci sono i feriti curati sommariamente e senza anestesia in ambulatori di fortuna, ci sono i carri armati che arrivano e distruggono, ci sono i bombardamenti, c’è l’enorme rispetto di Pabst per chi ha perso vita e salute. Non c’è posto per l’ironia, non c’è nulla da ridere, c’è solo da cercare di capire. Ancora oggi Westfront è uno spaccato sublime della Prima Guerra Mondiale e delle guerre tutte, è un grido pacifista, è un film forte, disturbante, potente. È una ricostruzione, è un ricordo, è un monito. È un film maledettamente necessario, sotto ogni punto di vista.
Marco Romagna