Con Amos Gitai, a parte la complessa e stimolante installazione (The Law of the Pursuer) a margine del Forum Expanded della Berlinale, ci eravamo lasciati attorno ai giorni dell’assassinio di Rabin, nella espansione razionalizzata di ricostruzioni rigorose, nel materiale di repertorio da interrogare continuamente, nel tentativo sempre più labile di trovare uno sbocco a un percorso di distensione sulla questione palestinese apparentemente congelato negli ultimi tempi. Ora, con West of the Jordar River (Field Diary revisited) presentato a Cannes in Quinzaine des Réalisateurs, ritorniamo a quei giorni o forse addirittura a molto prima, quando Gitai nel 1994 decise di tornare in Israele, dopo un esilio volontario di quasi dieci anni, proprio per intervistare Rabin nell’ambito di un progetto documentaristico enorme e fortemente voluto dal neo presidente per dare un’altra possibile dialettica all’ennesimo tentativo di pacificazione più stabile. L’ultimo lavoro dell’architetto e autore di Haifa parte proprio da lì, da quei frammenti di video intervista, per riprendere ancora una volta il discorso e disegnare una nuova e più completa mappatura vorticosa e riflessiva sulla zona più calda del mondo. Nelle parole del glorioso comandante della Guerra dei Sei Giorni il tentativo reale di apertura verso una risoluzione sembrava davvero possibile durante il primo periodo del suo mandato, non sicuramente con l’ortodossia islamica e l’e(ste)tica della faida di Hamas, ma nel confronto aperto con Arafat e con tutta la dirigenza dell’Olp più dialogante. Giorni che paiono distantissimi, e forse proprio per quello vanno ancora indagati. Ma quel tentativo si ruppe in maniera drammatica: Rabin fu assassinato da un estremista di destra israeliano nel 1995. Cosa rimarrebbe oggi?
Stacco, l’oggi, appunto. Con la stessa modalità ora Gitai intervista l’attuale Ministro degli Affari Esteri del governo Netanyahu, giovane ambiziosa ed estremista. Tzipi Hotovely, astro nascente del partito conservatore, rivendica le sue posizioni attaccando l’autore, quasi accusandolo di ignorare le condizioni di questa situazione e rivendicando quella terra difficile in nome della religione e della storia. Forse proprio ora può iniziare il vero viaggio verso il west, le sue mura e le sue leggi. Siamo in Cisgiordania, a Hebron precisamente, e Gitai incontra individui, figure civili, militari, e anonime che in Israele lavorano ogni giorno a quella speranza che proprio ora, come non mai, pare inascoltata e negata dalla politica come dall’amministrazione. Uno dei redattori del quotidiano Haaretz è convinto come gran parte del popolo, e soprattutto i fondatori stessi dello stato israeliano, credessero alla possibilità di uno stato libero e democratico e che come prima preoccupazione avrebbero dovuto avere quella del creare una convivenza pacifica e duratura con coloro che quella terra già abitavano. Da qui Gitai si muove alla ricerca di quel seme che ancora vive nelle piccole associazioni arabo-israeliane che ancora oggi credono e lavorano alla convivenza. E trova le donne di Parents Circle, un’associazione di madri israeliane e palestinesi che hanno perso i figli a causa del conflitto e che ora accettano di raccontare anche ai giovani quelle atrocità, alle ragazze di B’Tselem, che insegnano a filmare le stesse atrocità nei territori occupati, piccole registe indipendenti che lavorano a un informazione libera in cui lo strumento filmico è da una parte emancipazione familiare e sociale e dall’altra veicolo di messaggi liberamente pacifisti. Trova il collettivo di Breaking the Silence in cui ex militari, ora renitenti, si espongono in maniera critica e dura sui metodi dell’esercito adottati in Cisgiordania, trova Ta’yush, un movimento di base che lavora da entrambe le parti per abbattere le mura del razzismo e della segregazione costruendo un vero partenariato arabo-ebreo partendo dal basso. Tutte queste splendide esperienze spesso cooperano cercando un alternativa possibile per un futuro di uguaglianza, giustizia, accoglienza, libertà e pace attraverso azioni concrete e quotidiane, che vogliono la fine dell’occupazione israeliana di quelle terre come punto di partenza per una realtà nuova e non violenta. Saprà in qualche modo l’establishment rispettare questo desiderio?
Un vero neo-rabinismo pare davvero improbabile considerando anche l’idea che ha lo stesso Netanyahu sulla possibile nuova colonizzazione sionista di questa striscia di ovest con espropri autorizzati e addirittura protetti. Basti pensare anche alla deriva verso la destra estrema di molti integralisti ebraici che detengono l’esecutivo e che ora guardano con positività la nuova nomina del presidente statunitense, molti di loro furono proprio gli stessi sovrani(sti) che uccisero Rabin e quella che (ora si può davvero dire) fu la sua utopia. Rimane così unicamente una resistenza culturale della quale Gitai si fa tra i primi portavoce, in questo caso con un lavoro meno teorico e formale, ma più giornalistico e audace. Se il precedente Rabin, the last day era un gioco di sguardi e punti di vista su tutti quegli spaccati di società israeliana che nulla fecero per salvare la vita del presidente, questo West of the Jordan River (Field Diary revisited) si pone come diario di viaggio in luoghi già attraversati e ora nuovamente filmati, in una concreta e sentimentale topografia dell’orrore e della speranza accompagnata da un giro di clarinetto, frammenti di interviste e molti incontri. Ed allora si ritorna a pensare che l’unico varco possibile sia nel basso, nell’unione ideale di due popoli che nella maggioranza dei casi da mezzo secolo vorrebbero provare a vivere all’esterno di un teatro di guerra. Un ragazzo dice che ci vorrebbero ventiquattro ore per mettersi d’accordo se ce ne fosse la volontà, e poi inizia a giocare a backgammon in una partita mista tra giovani ebraici e palestinesi. Contro ogni rivelazione retorica, contro ogni oppressione politica, contro ogni fondamentalismo ottuso. Ed allora perché anche i grandi nel bel mezzo di una partita a carte non potrebbero parlare, finalmente, di pace?
Erik Negro