DEAR SON (2018), di Mohamed Ben Attia
La struttura narrativa, così come le tematiche politiche, culturali ed economiche che stanno alla base, lo smaccato porsi dalla parte del popolo e lo stile fatto di una macchina a mano quasi documentaristica, silenziosi pedinamenti e ancestrale solitudine, è sempre quella ampiamente oliata e collaudata dai fratelli Dardenne nel corso di una carriera ormai trentennale. C’è la presentazione dei personaggi e della realtà nella quale si muovono, ci sono gli approfondimenti sulle loro personalità e sulle loro contraddizioni, sui loro rapporti umani e sulla loro autodeterminazione, e poi interviene un evento inatteso, traumatico e drammatico, dal quale il film prende nuove strade, spinte magari dalle parti (destrutturate e dilatate) della detection, e si innerva di nuove stratificazioni. Il che, già nel cinema dei Dardenne, è perfettamente funzionale alle riflessioni che nascono e si sviluppano sulla reiterazione e sull’incontrare in una scansione quasi episodica tutti i frammenti di puro realismo che vengono scritti e messi in scena, ma alla lunga finisce anche per rivelare una certa rigida schematicità, che più che far gridare al rigore cinematografico parrebbe a tratti quasi un adagiarsi su forme e schemi ben precisi e (già) ben noti, tarpando parte della possibile forza dei loro film. Ma almeno, i Dardenne, questo tipo di schema se lo sono costruiti da soli. Il quarantatreenne regista tunisino Mohamed Ben Attia, invece, di Jean-Pierre e Luc Dardenne è più semplicemente una sorta di figlio spirituale, di erede, di creatura. Sono stati i fratelli belgi a scoprirlo e a lanciarlo, a trasmettergli il loro cinema, a prenderlo sotto la loro ala protettrice e produttiva sia per il film d’esordio Hedi, presentato in concorso alla Berlinale 2016, sia per questo Weldi (titolo internazionale Dear Son), opera seconda e, seppure ancora troppo fedele all'”originale” dardenniano nella narrazione, nel linguaggio e nello sguardo, decisamente più matura e centrata, con la quale Ben Attia sbarca a Cannes nell’elegante sala del Marriott, storica sede ormai da mezzo secolo della Quinzaine des Réalisateurs. Quello che però, ben al di là dei Dardenne e della loro ombra, rende Ben Attia un autore estremamente interessante è il suo vivere da vicino, dalla Tunisia, gli stravolgimenti di questi anni in medio oriente, la società panaraba, le proteste, la corruzione, il terrorismo. Laddove Hedi andava a indagare, lasciandole però troppo sopite, meccaniche nel loro presentarsi fra le righe e quasi soffocate dal triangolo amoroso messo in scena, le origini culturali delle Primavere Arabe, Weldi alza il tiro e si fa più esplicito, andando a lambire direttamente ciò che sta intorno alle cellule terroristiche dell’ISIS e configurando, non tanto per le tematiche quanto per lo sguardo e l’acume con cui le affronta, il netto passo avanti di un autore in formazione dopo un esordio interessante ma problematico. Nel progressivo avvicinamento, ma sempre a distanza di almeno un grado di separazione, al cuore dei problemi del mondo panarabo, Weldi è una sorta di seconda pennellata sullo stesso affresco della contemporaneità in medio oriente, come se ogni film di Ben Attia volesse essere una circumnavigazione e una nuova tappa di avvicinamento a un qualcosa di cui ancora non si riesce a vedere il centro, né la fine. Anche perché, con ogni probabilità, a Mohamed Ben Attia e al suo cinema il centro interessa relativamente. Al regista, così come ai suoi mentori, non interessa il frontman così come non interessa il potere che rimane nell’ombra, ma interessa la gente comune, vera, il popolo, il (sotto)proletariato. Non interessano i responsabili della realtà sociale messa in scena, interessa chi la subisce ma è costretto a viverla dal basso, forse impotente di fronte a forze troppo forti, ma fino all’ultimo pronto a resistere. O per lo meno a provarci.
Dramma familiare destinato, da intimo, a crescere e universalizzarsi fino a giungere all’altro lato (dell’altro lato) del terrorismo islamico, Weldi inizia con l’apprensione di due genitori di fronte al malessere del loro unico figlio. Sami, adolescente sotto stress apparentemente per l’appropinquarsi dell’esame del Baccalaureato, equivalente della maturità italiana necessario per potersi iscrivere all’università, ha continue emicranie, ha difficoltà a dormire e spesso, come la primissima immagine del film dichiara apertamente, vomita per tutta la notte. La madre, Nazli, è preoccupata come solo una madre sa esserlo, ma è probabilmente Riadh, padre e operaio ormai alle porte della pensione, quello che più soffre la situazione, e che più si prodiga per il bene del suo unico figlio. È un padre amichevole e premuroso, capace di dormire in auto pur di poter portare il chiuso Sami a una festa e poi riportarlo a casa, pronto a pagargli, pur nelle difficoltà economiche del proletariato tunisino, esami e cure per capire la natura dei suoi attacchi di cefalea, della sua asocialità, della sua apatia. Certo, magari ogni tanto fra padre e figlio c’è qualche piccola incomprensione (e, fra i due, quello più moderno e aperto alla modernità occidentale è sin dall’inizio il padre), ma sempre prevale (o per lo meno così sembrerebbe) il reciproco amore, senza che mai nessuno in famiglia possa minimamente sospettare le intenzioni di Sami, quale sofferta e drammatica decisione stia covando al di sotto della sua poco convincente diagnosi di «depressione». Andrà a uccidere, andrà a morire, andrà a diventare martire del fondamentalismo più malato di una religione, oppio dei popoli come ogni religione e associazione criminale come ogni fondamentalismo religioso, che Riadh ha da tempo smesso di praticare. Sullo sfondo delle loro dinamiche familiari, permeate di amara quanto acuta ironia e filmate da Ben Attia con assoluto realismo fra pedinamenti e camera car “dal portabagagli” che, al di là del cinema dei suoi mentori, a tratti ricordano la Nouvelle Vague rumena di Porumboiu e Puiu, si apre ancora una volta la Tunisia di oggi. Una Tunisia contraddittoria, una Tunisia nella quale bastano 10 dinari per corrompere il poliziotto del blocco stradale affinché chiuda un occhio sulla mancanza dell’assicurazione, una Tunisia nella quale permangono le ottusità religiose, ma al contempo l’occidentalizzazione è ormai più che radicata fra discoteche, auto popolari europee e padri sessantenni con Facebook. È una Tunisia che Sami soffre profondamente, ma non dice nulla, non esterna nulla, si limita a vomitare, a soffrire, a chiudersi, e poi a sparire all’improvviso.
Perché ben presto – e qui ritorniamo alla struttura narrativa, croce e delizia nella sua schematicità e nelle sue intuizioni –, una volta portata a termine la costruzione della routine riflettendo sulla società tunisina, sulle sue forme e derive culturali e sulle psicologie dei personaggi, subentra l’evento improvviso e inatteso, la chiave di volta del film, e il fuoco di Ben Attia cambia, si sposta dalla Tunisia alla Siria, dalla centralità alla mancanza di un figlio, dai suoi esami scolastici, medici e psicosomatici al disperato viaggio di un padre alla disperata ricerca di uno jihadista. Mohamed Ben Attia mette in scena il suo sostanziale ribaltamento tematico e narrativo facendolo entrare dolcemente, in punta di piedi, ma il suo effetto su Riadh e Nazli sarà quello di una deflagrazione di sentimenti e di disperazione: Sami è sparito, è partito per la Siria lasciando solo un messaggio di addio e una delirante spiegazione sul computer del padre. Sembra un dialogo mattutino come tanti, fra marito e moglie svegli da poco, ma poi, dopo che i due si sono allontanati in direzioni opposte, la macchina da presa rimane per qualche secondo ferma sulla stanza vuota, in attesa che Riadh torni quasi improvvisamente in campo con la domanda che mai avrebbe voluto fare: «Dov’è Sami?». Da questo momento il pedinamento è solo su Riadh, sulla sua decisione di partire a costo di finire i risparmi per tentare l’impresa disperata di riportare il figlio a casa, sul suo viaggio in Turchia e sulle sue peripezie, fra spostamenti di fortuna, informazioni a caro prezzo, aiuti ancor più cari e squallide camere d’albergo prive di riscaldamento, per attraversare clandestinamente il confine siriano. Ed è assolutamente giusto che il tanto agognato incontro con il figlio, l’abbraccio, il suo implorarlo in lacrime di tornare a casa e il rifiuto irremovibile ricevuto in cambio, avvenga all’improvviso, fra le rovine di un tempio, senza che ci sia una vera e propria indagine o che ci sia una progressione/giustificazione narrativa. Potrebbe sembrare una forzatura, e invece è il miglior momento del film, è il momento di più pura poetica cinematografica, è l’ambiguità fra la realtà e il sogno, fra il possibile e l’impossibile. Anche se dopo il ritorno in Tunisia di Rihad la moglie Nazli gli chiederà più e più volte di raccontarle quell’incontro, non importa se sia realmente avvenuto o se Rihad lo abbia semplicemente sognato fra fame e freddo, conta solo che ne sia convinto, e che per questo sia triste, disilluso, amareggiato, ma finalmente sereno. Rimane il tempo per un video di saluti giunto per un qualche motivo sul computer di Rihad privo di audio, rimane il tempo per scoprire di essere diventati nonni, rimane il tempo per una risposta di insulti a chi fa un figlio per lasciarlo orfano che Rihad non avrà mai il coraggio di inviare, e che sarà sostituita da un lacrimato «congratulazioni» di chi capisce di non poterci fare nulla. Perché poi ci sarà solo il tempo per le lacrime. La notizia, attesa, della morte di Sami in un qualche attentato rimane pudicamente fuori campo, così come rimarrà fuori campo il suo feretro che le autorità tarderanno a rimpatriare. Quello che conta è che d’ora in poi madre e padre, fra solitudine e silenzi, potranno solo continuare a parlare di lui, a evocarlo, a ricordarlo, a tenerlo vivo. Non il martire, non il guerrigliero, non il carnefice (che poi in realtà è prima vera vittima) dei fondamentalismi religiosi e della politica/economia che si nasconde fra le righe dei testi sacri, ma semplicemente Sami, il figlio che non c’è più, e per il quale non basteranno mai le lacrime.
Marco Romagna