WASP NETWORK (2019), di Olivier Assayas
«Non riesco a capacitarmi come il paese che spia di più al mondo, gli U.S.A., possa accusare di spionaggio il paese più spiato del mondo, Cuba»
[Fidel Castro in un’intervista, presente in riprese d’archivio all’interno del film]
«Questo è un nodo avviluppato,
Questo è un gruppo rintrecciato.
Chi sviluppa più inviluppa,
Chi più sgruppa, più raggruppa»(Cenerentola, Gioacchino Rossini, libretto Jacopo Ferretti)
Assayas è uno dei grandi autori viventi, e certamente il più versatile, unico nella sua generazione di registi francesi. Dagli esordi giovanili, nei quali ha firmato anche il capolavoro L’eau froide, alla maturità confermata con le riflessioni sul cinema nel tributo a Fassbinder e Truffaut di Irma Vep e nel quasi-New French Extremity di Demonlover, ha sempre dimostrato un’onestà identitaria, in cui profonda autorialità e intrattenimento vanno di pari passo con coerenza ed efficacia. È un regista a suo modo concettuale in realtà, ma che riesce sempre a saltellare da un film all’altro completando un discorso in costante evoluzione con registri sempre diversi. Basti pensare ai suoi film post-Carlos e post-Apres Mai, con le prime collaborazioni con un cast hollywoodiano nell’esistenzialismo di Sils Maria e nei fantasmi di Personal Shopper, e poi la commedia brillante e intellettuale di Doubles vies: un’operazione puramente emotiva sulla vita, poi una prettamente teorica (per quanto potentissima) sul ruolo della morte, e infine un racconto borghese e leggero sul nostro rapporto con la cultura e la proposizione dell’ego tramite essa, con sempre al centro i rapporti umani, l’amore, il legarsi gli uni agli altri anche quando nella nostra mente e nel nostro animo regna il multiforme temporale eterno dell’umanità, che il regista tenta di raccontare sempre seguendo punti di vista diversificati. Perciò la sua decisione di approdare al cinema di genere spionistico con un lungometraggio dal montaggio velocissimo, per quanto inusuale, non stupisce e porta subito a una serie di interrogativi, necessari da porre perché è necessario provare a rispondervi. Come può un’opera così lucidamente convenzionale spostarsi su dei binari che ci dicano qualcosa sul linguaggio filmico e profilmico del mondo in cui viviamo, per esempio? Tra ‘montages’ scorsesiani e ribaltamenti temporali e intenzionali della narrazione dal sapore squisitamente tarantiniano, Wasp Network si propone come un oggetto convenzionale ma fluido, con un approccio che dunque preferisce al puro intellettualismo o al puro intrattenimento una visione finto-oggettiva e ‘cinephile’ della realtà, un vivace potpourri di registri e di immedesimazioni metatestuali, confronti culturali, pura ribellione e un’umanità radicale che cerca sempre di sfondare i fatti reali, di superare per importanza l’evidente esigenza di un apporto oggettivo con il cuore e l’empatia. Sì, Assayas vuole entrare dentro la rete di comunicazioni politiche messe in scena, ma innanzitutto vuole bene ai suoi personaggi e cerca di dare loro l’amore e la rappresentazione che si meritano, non indugiando nella messinscena del loro dolore ma anzi cercando il più possibile di attenersi a una sorprendente e dolcissima costruzione delle loro relazioni su più piani. Basti pensare a come si intersecano le cose dette e quelle non dette, con anche frasi intere copincollate dalle labbra di un personaggio a quelle di un altro e con prima il ruolo di “verità” e poi quello di “bugia”, o viceversa, eccetera: e di chi ci si può fidare? In che mondo cinematografico stiamo entrando? Da quale parte stiamo?
Ricapitoliamo. 1990, Havana. Un istruttore di volo, padre di famiglia, prende un aereo e senza dire niente a nessuno decolla a Cuba e atterra negli Stati Uniti, in Florida, a Miami. Ha tradito il comunismo e in America inizia a lavorare come pilota per un’associazione anti-castrista. Un ufficiale dell’esercito cubano con una tuta da sub entra in acqua a Cuba e nuota fino in America, anche lui traditore, almeno secondo l’occhio pubblico, lontano dal regime, legato in qualche modo all’FBI. E non sono gli unici, in quegli anni. Ma queste associazioni cosa fanno realmente? Aiutano le fughe da Cuba, fanno voli di lancio di volantini su Havana, facendosi finanziare da ricchi trafficanti di droga. L’FBI tiene questa rete di insurrezionisti anticonvenzionali sotto osservazione. Le associazioni collaborano con movimenti anti-castristi ben più violenti, terroristi che pianificano attentati lungo i siti turistici di Cuba per danneggiarne l’economia basata sul turismo. Una matassa intricata. E, come preannunciato non solo dalla precedente filmografia di Assayas e dalle sue ben note simpatie politiche, ma anche da quel cartello iniziale che mentre parlava del regime stava attento sin da subito a porre l’accento sull’embargo imposto dagli USA come reale “colpevole”, tutta da ribaltare. Perché tutti quegli esuli cubani, in realtà, sono sempre stati patrioti fedelissimi a Castro, disposti a mentire a chiunque pur di infiltrarsi e a rinunciare per anni con dolore alla tenerezza e agli affetti in virtù di qualcosa di più grande: la Rivoluzione, Patria o muerte, liberare Cuba non dal regime, ma da chi lo ostacola. Sono spie comuniste che guidano il Wasp Network, metaluogo di comunicazione (situato nel luogo reale Miami) in cui tutto esiste in funzione di un patriottismo fatto appunto di non detti, di bugie, e di interconnessioni umane e sociopolitiche. Un film profondamente politico, quasi militante, in cui Assayas si dimostra il più regista (e forse anche il più francese) tra i registi francesi e nel contempo il più americano, qui sbarcato di nuovo e totalmente a Hollywood. E, per evitare malintesi che potrebbero far sembrare accusatorie le nostre parole, gira come solo i grandi sanno girare. Il primo motivo per cui bisognerebbe vedere questo film è la prosa del suo autore: tutto con ottiche strette, la macchina sempre in movimento, piani sequenza invisibili che si muovono per le stanze dando fluidità al racconto e poi bruschi passaggi alla macchina a mano e a un montaggio frenetico; e infine, perché no, strumenti molesti del cinema anni ’70, zoom, fermo immagine, panoramiche a schiaffo, split-screen. Ma oltre alla grammatica visiva di cui usufruisce Assayas, di che parla Wasp Network? È un film di spie e come ogni film di spie l’intrigo è un nodo avviluppato, una matassa difficilmente sbrogliabile. È il network del titolo, fatto da individui difficili da individuare, di cui non si può capire cosa è vero cosa è falso. Queste persone hanno una famiglia, o forse più di una, ma è una famiglia reale? È solo una copertura? Gli affetti sono reali? O sono anche quella una maschera per potersi nascondere nel paese nemico? È una storia vera, ma anche un gioco. Sono veri i personaggi, i loro drammi, le loro pene (come ci viene mostrato sui titoli di coda). È storia vera e storia recente dell’occidente.
Eppure è un gioco (meta)cinematografico. Un film di spie nella tradizione degli anni ’60 e ’70, dalla narrazione scattante e dalle continue trovate visive, in cui non mancano le citazioni che nel cinefilo versatile Assayas sono garantite: il capo degli anti-Castro che si definisce un Jedi («La forza sta dalla nostra parte»), il pilota felice di mangiare MacDonald’s dicendo di aver mangiato «MacCastro» per troppo tempo, il marito che dice alla moglie «Ti proteggerò, sono la tua guardia del corpo, sono il tuo Kevin Costner» citando Bodyguard – a dimostrare come l’iconografia del cinema capitalista americano penetri, volente o nolente, in ogni sistema. In un film divertente per il pubblico dove si vede che il regista ha goduto nel giocare con un approccio comunista, liberatorio e di certo non privo di spunti teorici nella struttura depistante e nei continui cambi di tono e di punto di vista, ma rimanendo sempre profondamente goliardico a livello linguistico. Come un Ocean’s politico con la da sempre schierata Penelope Cruz al posto di Julia Roberts, con il da sempre schierato Gael Garcia Bernal (con tanto di risposta piccata e pubblica difesa di Castro in conferenza stampa a chi qui a Venezia, dimostrando di non aver capito più di tanto del film, poneva domande contro Cuba) al posto di George Clooney, e con i cubani al posto dei bianchi wasp – o anche, se vogliamo, uno Zodiac in cui a fare da protagonista non è un individuo ma una rete a incastri fatta di eventi, passaggi: nel film di Fincher un’indagine, in Wasp Network una sovrastruttura di comunicazione. Ma, anche qui, è un film d’autore del beniamino dei festival Assayas o è un thriller di spionaggio dal cast all star per i botteghini? È tutto falso ovunque e comunque. E proprio per questo è perfettamente in linea con gli ultimi film di Assayas: Sils Maria, Personal Shopper e Doubles vies. Il regista francese sta indagando-raccontando il contemporaneo in modo inquietantemente lucido. Un contemporaneo fatto di fantasmi e di maschere, dove ci nascondiamo dietro a dispositivi, dove parliamo, ci incontriamo, facciamo amicizia, dove ci sposiamo senza conoscerci veramente, dove tutto è falso e l’individuo è sempre inserito in un sistema di qualche tipo che lo costringe a fingere. Il Wasp Network è la nostra società, ma l’individuo chi è realmente? Potrebbe sembrare che il cinismo possa essere onnipresente in questa sorta di operazione e invece non c’è, perché il finale è straziante e si attacca all’unica cosa certa del film, l’amore di una coppia nonostante tutte le maschere possibili, la coesione di una famiglia. Ed è struggente proprio perché questo è ciò che viene davvero perseguitato (ed embargato, attraverso un braccio di mare o attraverso un vetro) dal sistema. È una macchina perfetta quella che racconta questo sistema, ma che nonostante tutto torna ad affezionarsi al cuore dei suoi personaggi, a sprofondare nelle loro lacrime, nei loro baci e abbracci. In un film che si comporta esattamente come le spie che mette in scena. Wasp Network si infiltra, depista, svela, ribalta e traccia nuove coordinate, dimostrando di fatto come le spie, con i loro copioni da studiare, con i loro accenti da imitare, con le loro parti da recitare fino in fondo e anche in famiglia, in fondo nient’altro facciano che grande, grandissimo cinema. Quello di Olivier Assayas, teorico, stratificato, politicissimo. Un cinema di linguaggi, di citazioni, di scrittura, di struttura, di ideali etici e profondi, di speranza e di melodramma.
Riccardo Copreni, Nicola Settis