I primi saranno gli ultimi. Da iniziali unici condannati, a vagare nello Spazio fino al termine dell’ossigeno nelle bombole della tuta, a osservatori di quel pianeta Terra su cui mai potranno tornare e su cui non si farà assolutamente nulla per provare a salvarli, per poi ritrovarsi infine testimoni della sua distruzione, esclusivi sopravvissuti, per quanto ancora per poco, di un’umanità sempre più classista, divisa, dipendente dalla tecnologia e incapace di vivere la propria vita, e forse proprio per questo incenerita e annientata all’improvviso da una pioggia di meteoriti. L’unico momento in cui Dio si degnerà di rispondere anche all’ultima ruota del carro, a quell’astronauta umano di bassa manovalanza impiegato nelle mansioni più pericolose e meno affascinanti dell’intero progetto spaziale, registrato per un valore di 500mila dollari quando quello di un qualsiasi androide – forse perfino quello obsoleto e da disattivare perché ormai inservibile, adatto a far compagnia solo a una generazione che ormai non esiste più mentre le nuove richiedono altri servizi, impreziosito nel suo strazio dalla breve quanto magistrale interpretazione di un irriconoscibile Rupert Everett – può ampiamente superare i 40 milioni. Del resto sembra essere il Denaro, l’unico vero Dio che ancora muove il mondo, che lo incattivisce, che ne regola una società sempre più classista e straniata di servi e di padroni. Più ancora della tecnologia, e più ancora dell’inadeguatezza umana sempre più evidente di chi ne fa un uso eccessivo e smodato. Una caustica e graffiante critica al capitalismo economico e sociale che non sta però solo nella cornice narrativa che apre, contrappunta e chiude la coralità di Warning, produzione polacca scritta e girata in lingua inglese dalla giovane regista californiana Agata Alexander, al grande salto con l’esordio al lungometraggio dopo una carriera già quasi decennale di brillanti corti e videoclip. La sardonica lucidità politica e apocalittica del film, presentato al Trieste Science+Fiction Festival 2021 dove ha vinto il Méliès d’Argento come migliore opera europea dell’edizione candidandosi in automatico per il Méliès d’Oro che verrà assegnato dalla European Fantastic Film Festivals Federation a Sitges 2022, abita in ogni singolo episodio solo vagamente collegato del multi-racconto che l’autrice mette in scena, come tasselli di un mosaico di neoliberismo e alienazione al quale lo sperduto manutentore spaziale David assiste da lontano, costretto a vagare nel vuoto in attesa della sua inevitabile e «romantica» morte.
Uno sguardo inerme e impotente, quello dell’astronauta sperduto nel nulla, che si posa su un futuro drammaticamente vicino, in cui i software dei robot da compagnia si scopriranno in realtà molto più emotivi e sinceri degli uomini che li vendono e che li comprano, e in cui la spiritualità e ogni decisione verranno affidate da un essere umano ormai incapace di pensare all’intelligenza artificiale di un Dio 2.0 elettronico che, come un’evoluzione di Alexa, declama frasi motivazionali, dispensa ordini con cui vivere e tiene il conto di peccati e buone azioni. Fino alla necessità di cambiarlo, perché il consumismo esattamente questo prevede, per comprare la versione più aggiornata e ancora più invasiva, in grado anche di vedere e non solo di ascoltare, per la quale serve l’abbonamento all’app PRO – o forse basta una finestra aperta – per eliminare le pubblicità. Un futuro agghiacciante nella sua verosimiglianza, in cui i più poveri – e ovviamente solo loro – finiranno per uscire dalle proprie roulotte per vendere per un weekend il corpo alla mente dei più ricchi, che nel frattempo oltre a case, soldi e potere avranno magari ottenuto pure il privilegio altrettanto esclusivo di accedere all’immortalità, di emarginare e riversare impuniti sempre più disumanità contro gli altri esseri umani nati più deboli e meno fortunati, perfino di manipolare e cancellare i ricordi e il libero arbitrio di un figlio “colpevole” di amare una mortale, come novelli Montecchi e Capuleti di differente (e per l’arrogante famiglia di lui incompatibile) estrazione sociale. Eppure, come suggerito dall’episodio in cui Patrick Schwarzenegger ripercorre con il visore i momenti della sua storia d’amore di cui non riesce a metabolizzare la fine, il viaggio nella memoria per stare vicini a chi manca può diventare la propria stessa disgrazia, la persecuzione involontaria di chi si ama rovinandole la vita e proprio i momenti migliori passati insieme, lo scoprirsi esattamente quel misterioso stalker di pixel che si sarebbe voluti combattere fianco a fianco, e quindi il principale nemico tanto dell’amata quanto di se stessi. L’ennesima faccia di una tecnologia troppo avanzata per non perderne il controllo, e di un’umanità ormai del tutto intossicata che non riesce più a farne a meno nel continuo intrecciarsi delle microstorie parallele immaginate fra comico e tragico da Agata Alexander. Forse non tutte esattamente allo stesso livello di riuscita, forse non tutte allo stesso modo originali e illuminanti, e forse in fin dei conti, per lo meno nei monologhi “spaziali”, nemmeno prive di qualche sparuta pennellata di eccessiva retorica. Ma senza dubbio tutte coerentissime parti di una stessa visione, di una stessa preoccupazione, di una stessa rabbia, dello stesso sfaccettato dolore mentre si guarda al quotidiano evolversi distopico del mondo.
Basterebbe forse il magazzino asettico della pura e profonda amarezza nel momento del tradimento, con la disattivazione dell’anziano androide interpretato con prodigioso controllo di ogni minimo movimento e tic da Everett. Basterebbero forse i cromatismi caldi e rosati un po’ à la Wes Anderson della cliente del Dio 2.0 ormai incapace perfino di pregare «manualmente» contrapposti all’oscurità sgranata come un videogame dei ricordi elettronici di Schwarzenegger junior. O forse basterebbero le asfissianti soggettive della diciassettenne “posseduta” nel sonno di «Second Skin» dal ricco e corpulento affittuario del suo corpo, che avrebbe voluto usarla per provare l’orgasmo femminile e magari circuire qualche ragazzina, e che invece finirà inavvertitamente per farla stuprare e picchiare da una furia strafatta che non potrà essere che maschile. Proprio come basterebbero forse da sole le inquadrature nello Spazio, che ricostruiscono una Terra visivamente abbacinante tanto nel suo azzurro brillare quanto nella sua infuocata distruzione, a sfruttare al meglio il budget a disposizione facendolo sembrare molto più alto per ritornare ai più eminenti e fastosi immaginari fantascientifici hollywoodiani. Una serie di istanti e di scelte estetiche apparentemente divergenti, e invece consapevolmente ed efficacemente calibrate da Agata Alexander su ogni segmento di Warning, su ogni microstoria, su ogni cambio di tono e per molti versi di (micro)genere all’interno della narrazione. Con una chiara conoscenza del mezzo cinema e dei suoi linguaggi, per un immaginario multiforme e dichiaratamente concepito per il grande schermo attraverso il quale lasciar deflagrare una chiara ed incendiaria lettura delle derive dell’umanità e della società ipertecnologica, che rimanendo fedele alla sua evidente ambizione politica mai si lascia sfuggire dalle mani le redini dell’intrattenimento. Sono più che sufficienti ottantacinque minuti per racchiudere in un paio di giorni e una notte una manciata di personaggi e microstorie legate magari solo da una finestra, da un mestiere, da un luogo, che scavano nel classismo intrinseco della società del Capitale e dei consumi avanzando sempre più dall’agio verso il proletariato. Fino a quella bambina che non ha davvero più nulla, nemmeno quel padre sperduto nello Spazio e destinato, da primo condannato a morte, a ritrovarsi temporaneamente l’ultimo sopravvissuto, mentre tutto il mondo corre inutilmente verso i rifugi improvvisati di chi vive l’estrema illusione di poter rimettere le cose a posto, e solo di fronte al baratro imminente, o magari nemmeno in quel momento, capirà finalmente i propri errori e troverà un senso alla sua esistenza. Forse è l’unica persona rimasta ancora realmente innocente in un mondo ormai irrimediabilmente corrotto che ha già ampiamente superato il suo punto di non ritorno, impegnata in una connessione impossibile, un pianeta Terra disegnato sul cemento per vederlo dall’alto proprio come quel papà che da parte sua oltre il vetro della sua tuta continua a registrare messaggi vocali per la figlia, pur consapevole che non li potrà mai ascoltare. Ma è importante farlo, commuoversi ancora, lasciare una traccia d’umano come ultimo vagito di quel pianeta che non sa più vivere. Chissà che non possa prima o poi essere la nuova base di partenza per una civiltà finalmente giusta, o per lo meno non più così spudoratamente iniqua.
Marco Romagna