VOYAGE OF TIME: LIFE’S JOURNEY (2016), di Terrence Malick
Il processo al massacro del reale che Malick idealmente ha intrapreso, al suo ritorno dietro la macchina da presa, con The Tree of Life (2011) e proseguito in forme non troppo dissimili tra To The Wonder (2012) e Knight of Cups (2015) trova ora la condensazione più claustrofobica, rarefatta e reiterata – si può forse dire che i tre film dell’autore texano dopo il 2011 sono come degli affluenti dell’enorme fiume che era The Tree of Life, dalla storia di un marito alla storia di un figlio fino alla storia del mondo tutto, sempre disfacendosi, decomponendosi, deflagrandosi. Voyage of Time vive in questa bolla onirica e fantastica, in cui l’unità è rispettata, in cui l’infinitesimamente grande si fonda con il piccolo, in cui l’uomo acquista il senso di una presenza laterale, ondivaga e persino nociva quando intercede in questo ordine. Il viaggio d/nel tempo che attraversa in modo panteista la forma più profonda del suo sguardo avrebbe dovuto rappresentare l’apice stesso di un percorso unico, giudizi a parte, che invece pare vorticosamente ri-arrotolarsi su stesso accanendosi sulla carcassa della linearità che definisce le nostre coordinate. Impossibile non valutarne il fascino e l’impatto estetico, la ricerca ostentata di un’immagine pura e accogliente che sia solo raccordo di flusso e deriva in paralleli cosmici a cui noi piccoli esseri dobbiamo/vogliamo guardare, l’impegno sovrumano celato dietro ogni singola inquadratura. Impossibile allo stesso modo non porsi un interrogativo all’invocazione (madre, natura? Madonna? O forse la bellezza?) lasciata all’algida e soave voce della Blanchett che commenta questo aprirsi e chiudersi di ogni piccolo diaframma dell’essere qui rappresentato. In ultima istanza impossibile non notare la ricerca-baratro che il Malick filosofo, uomo, credente e mistico affronta quotidianamente come sincero atto di fede ad un ordine superiore che spesso non accettiamo (secondo lui) di vedere, un ordine sicuramente spirituale, forse religioso, forse divino, forse incomprensibile.
Voyage of Time è una specie di plastica, irrealistica ri-costruzione/ri-narrazione in digitale della storia del nostro pianeta e necessariamente della storia della vita, dal primordiale all’acqueo fino al dinosauro e all’uomo. La cosa più interessante del film probabilmente è la natura della sua relativa incompiutezza tragica, la sua scomposizione di formato tra digitale e analogico, che riprende le riprese fatte a giro per il mondo da Malick durante il suo periodo di pausa (vent’anni tra il 1978 de I giorni del cielo e il 1998 de La sottile linea rossa), periodo in cui doveva essere scritto e girato Q, un delirante “sogno di un Minotauro” che doveva tramutarsi in una narrazione non-documentaristica dell’origine del mondo. Questa frammentazione, questa destrutturazione si attua in immagini con un’alternanza di visioni, elementi documentaristici in qualità inevitabilmente diversissima, mostrando il mondo attuale, la vita attuale, tra l’America, l’Africa, l’Asia e (curiosamente) la Toscana. Dunque il film più completo fattibile è un film che parte dall’incompiutezza e dalla frammentazione, dalla distruzione dell’immagine, dall’immagine “povera” che finisce per essere parte dello stesso frullato emotivo e visivo dell’immagine “ricca”. Ma non vi è una scelta di una via, tra l’installazione o l’opus sperimentale à la Brakhage da una parte e il documentario scientifico dall’altra (distribuzione National Geographic), vi è solo il plastico, a volte volontario a volte no, e ci si chiede quale sia la sua utilità, quanto il plastico possa essere necessario nel mondo e soprattutto nel cinema. Pensiamo alle minuscole televisioni kitsch in sovrapposizione sul volto di Willem Dafoe o al cuore in CGI di Christopher Matthew Cook in Dog Eat Dog (2016) di Schrader, film, questo, in cui l’elemento finto e poco credibile serve alla (de)scrizione di un decadimento del cinema di genere, da parte di un autore il cui lavoro principale è ormai da sempre la destrutturazione dei canoni del genere e del concetto di genere pur spesso sguazzandovi. In Malick non c’è niente di tutto ciò, c’è Dio, c’è la religione, c’è l’immagine, c’è un cinema che però non vive come ha vissuto spesso nella filmografia dell’autore, con la narrazione, con l’uomo, coi corpi — ed infatti le parti più belle di Voyage of Time sono quelle dedicate alla pelle umana, al muscolo, allo sguardo in macchina di un rozzo aborigeno attraverso l’acqua, con la voce narrante che dice “Ciò che vive in te non può morire”. È un film geografico e biografico, ma in cui lo sguardo si blocca a quella coltre d’acqua, non penetra nell’umanità necessaria della visione cinematografica. Neanche il radicale stacco kubrickiano (2001) che passa dalle capanne ai grattacieli, pur avendo un enorme fascino visuale e una potenza emotiva incredibile (complice anche la musica, come sempre, come Preisner sotto le nebulose in The Tree of Life), ma l’uomo non respira, non ha spazio neanche in mezzo a tutto il vuoto/pieno di ogni singola inquadratura; c’è solo Malick, in ogni inquadratura, solamente lui e il fatto che il film sia suo — e la bambina che nell’età moderna passa tra le macchine osservando il mondo ma senza guardarlo probabilmente è Malick stesso, ingenuo e infantile, che davvero guarda la completezza e la grandezza dell’universo ma nient’altro, non guarda il particolare, e qui non guarda neanche gli altri, tranne che nelle immagini del passato. La retorica religiosa del monologo senza risposta che ha scritto Malick, a metà tra San Francesco d’Assisi e il documentario che dovrebbe essere (ma probabilmente non è), dimostra la necessità dell’autore di una visceralità lontana dal cerebrale discorso sulla materia che è meno rischioso e più efficace (vedere Spira mirabilis di D’Anolfi e Parenti, anch’esso in concorso quest’anno, film in cui la voce tendenzialmente riempie i silenzi leggendo Borges): vi è un’incapacità di andare oltre il blando della preghiera, giusto, solo e soltanto per essere più sincero. Il che è apprezzabile, è coraggioso, anche perché sfocia in una visione cosmica positiva che è rara nel cinema attuale, ma che è anche anacronistica, e di nuovo plastica, e non si sa quanto possa essere davvero sincera di fronte a quella che comunque è una crisi esistenziale, volendo, violenta. È un film geometrico, astrofisico, geografico, uno spazio alieno e troppo lontano, in cui l’umanità più che trasparire sembra scomparire, c’è ma è come bloccata in un processo di sfumatura nel vuoto, nel nulla, nello spazio di antimateria che Malick (e qualunque altro umano) non può filmare, non può vedere, non può capire. Sembra che non ci sia niente da capire, ma c’è qualcosa da vedere, o forse c’è il suo fantasma, la sua illusione, il suo colore senza alcuna linea di contorno.
Ma in fondo cosa ci rappresenta l’estremizzazione possibile di questo elogio all’impossibilità? Qui forse urge un passo indietro, da parte di tutti. Facile accomodarsi sui carri dei vincitori (e forse anche su quelli dei vinti) ma per coloro a cui i carri non piacciono, potrebbe essere un problema. In questi novanta minuti (quelli della versione standard, mentre ben più breve sarà quella in IMAX) vediamo unicamente ciò che ci si aspetta, e forse il limite reale è questo. La riproducibilità tecnica del sublime è la forma stessa dell’impossibilità (lo stupore, la sorpresa ed addirittura la meraviglia) proprio perché quest’astrazione pare appartenere al vicolo cieco dell’assolutezza, dell’immagine scientifica documentarista di altissima qualità che si aggrappa a qualche frammento letterario per poter esistere di vita propria. Nella fusione apparente di National Geographic e de La Ginestra di Leopardi, può germogliare un’opera d’arte onesta e necessaria? Ecco, qui dobbiamo davvero fermarci tutti, smontare qualsiasi giudizio a priori (gli unici sentiti qua al Lido) ed interrogarci, a patto che questo gioco a posteriori (del quasi tutto, su un quasi nulla) ci possa realmente interessare. Se la risposta fosse affermativa allora lascio a voi tutto ciò. A noi non interessa, non interessa proprio perché non sentiamo l’obbligo del giudizio (il trappolone mortale della dialettica kantiana) e perché un autore del genere non ne ha altresì bisogno (pensate a tutte le schegge impazzite “treeoflifiane” nate in questi ultimi anni, pensate a tutti i danni arrecati da quel film a livello e-ste-tico) non perché migliore o peggiore, ma proprio perché ci mostra, al di là di tutto, i limiti stessi del valore di “posizione in merito”.
Se questo film ha un pregio oggettivo, per quelli soggettivi (e per i difetti ancor di più) lasciamo appunto a voi, è il tentativo impossibile di spaccare la sfera di giudizio e di limitarla all’opinione. Beh, di questi tempi forse, è già un miracolo.
Erik Negro, Nicola Settis