«Ma se mi addomestichi, avremo bisogno l’uno dell’altra. Per me tu sarai l’unico al mondo. Per te io sarò unica al mondo»
Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, cap. XVII
Si chiamava Sakura, proprio come il ciliegio. Proprio come quel fiore, simbolo del Giappone, che forma il suo bocciolo subito dopo la precedente sfioritura, ma che sa pazientemente aspettare per quasi un anno la successiva primavera per schiudersi insieme a tutti gli altri nel nuovo spettacolo rosa della tradizionale nevicata di petali. Si chiamava Sakura, proprio come quel fiore emblema della bellezza e della continua rinascita, ma anche della provvisorietà di un’esistenza breve e magnifica che proprio nella sua fragilità trova l’apogeo della sua purezza, della sua onestà e del suo coraggio. Si chiamava Sakura, proprio come quel fiore, vessillo del candore della morte, che con l’ultimo slancio vitale si stacca dal ramo e cade esanime al massimo del suo splendore, estremo sacrificio per inebriare e pacificare gli uomini con il suo incanto, per augurare buoni raccolti e buoni anni scolastici, per regalarsi fino in fondo agli altri e consacrarsi così, con la propria fine, alla vita. Si chiamava Sakura, proprio come il ciliegio, e proprio come i fiori di ciliegio se n’è andata troppo presto, a diciassette anni, all’apice della sua bellezza, della sua vitalità, della sua tenerezza. Chissà come l’avrebbe presa se avesse saputo che il suo funerale sarebbe stato celebrato in una giornata tanto uggiosa, tetra, piovosa, lontana da com’era lei, sempre raggiante, sempre solare, sempre allegra, sempre felice di «trovarsi bene» con tutti e di «darsi qualcosa» reciprocamente. Quella del suo addio, come se la pioggia nient’altro fosse che l’aggiungersi del pianto della natura a quelli di chi l’aveva conosciuta, è stata una giornata in tutti i sensi lontana dalla primavera. Lontana dalla luce del sole, lontana dal profumo dei fiori, lontana dal volo delle rondini, e soprattutto lontana da Haruki, letteralmente “albero di primavera”, quel protagonista e narratore silenzioso e introverso, timido e chiuso, freddo e (an)affettivo, che proprio come i fiori di ciliegio Sakura aveva saputo aspettare per poter sbocciare, fiorire e andarsene libera, consapevole di averlo per sempre cambiato e di avere finalmente capito e assaporato il senso più ancestrale della vita, l’altruismo, l’amicizia, la reciproca riconoscenza, forse l’amore, e di certo la condivisione di un rapporto unico e inspiegabile come l’affetto, come il sincero preoccuparsi per un’altra persona, come il soffrire e gioire insieme, come il fidarsi, da una parte chi ha bisogno di qualcuno a cui mostrare la sua fragilità dissimulata sotto la corazza dell’entusiasmo giovanile, dall’altra chi ha bisogno, e non lo sa, di aprire il proprio cuore al resto del mondo per trovare finalmente se stesso. Haruki, con il suo nome tanto compatibile e correlato a quello di Sakura da non pronunciare quasi mai nessuno dei due, a quel rito funebre non è riuscito ad andare, bloccato a casa e a letto dal suo dolore, dai suoi spasmi, dal suo tremendo senso di vuoto. Dal suo lutto, e dalla sua atroce incertezza di fronte all’ultima mail inviata a Sakura forse troppo poco prima che morisse, dalla sua paura di non aver fatto in tempo a consegnarle il messaggio più importante. Una mail di una sola frase, «Voglio mangiare il tuo pancreas», eretta ad apice della lirica straziata, dolorosa eppure dolcissima, di chi ha imparato il significato della pietà, dell’umano, del vivere. Come un novello Piccolo Principe con gli occhi lucidi al termine della sua, necessariamente agrodolce, educazione sentimentale.
Sta già nell’incipit tanta di quella che sarà la poetica di Voglio mangiare il tuo pancreas, altalenante ma senza dubbio sorprendente esordio al lungometraggio d’animazione di Shinichiro Ushijima tratto dall’omonimo romanzo di Yoru Sumino, best seller in Giappone nel 2014. È un’apertura in medias res che, sin da principio, nega ogni speranza in un funerale e in un atroce lutto da superare, per poi aprire al lungo flashback di chi al funerale era troppo disperato per andarci e quindi preferisce tornare indietro, al primo incontro in biblioteca, a quella ragazza così rumorosa e vitale che quasi infastidiva quel ragazzo al tempo così solo e lontano da tutti, asociale, «troppo introverso», incapace di provare sentimenti e disinteressato al resto del mondo. Era lei, al tempo, a dire «Voglio mangiare il tuo pancreas», ricordando quelle credenze popolari e protomediche secondo le quali mangiare un organo animale avrebbe guarito il corrispondente organo dell’essere umano malato, mentre lui di certo non poteva immaginare che, anche in quel preciso momento, quella ragazza così evidentemente ai suoi antipodi per indole e gusti fosse malata proprio al pancreas di una malattia incurabile come una condanna, come una clessidra, come un tempo drammaticamente limitato in cui provare le ultime esperienze. Sarà un fugace scorcio al diario di Sakura abbandonato in una corsia d’ospedale a fare di Haruki l’unico giovane depositario del suo grande e terribile segreto, di quella atroce verità dolorosamente celata, per evitare patetismi, a tutti gli altri compagni di scuola compresa l’amica del cuore. E saranno i loro ripetuti incontri, prima imposti da Sakura quasi come un ricatto e poi sempre più partecipi e a cuore aperto come la verità condivisa, ad arricchire entrambi, in un doppio romanzo di formazione che troverà nella dilaniante circolarità dell’ultima mezz’ora, quando diversi giorni dopo la morte Haruki riuscirà finalmente a presentarsi a casa della madre di Sakura e gli verrà consegnato il diario con la lettera che lo farà nuovamente tornare indietro a ridiscutere tutti quelli che erano stati i momenti passati assieme, il suo apice lirico più straziato. Per Haruki, timido e insensibile, felice artefice della sua solitudine apparentemente spigoloso come i volti triangoleggianti del carachter design e invece morbido come la dolcezza che saprà provare ed esprimere, erano sempre contati solo i libri, mondi nei quali immergersi per – più o meno inconsapevolmente – fuggire da quello reale, ed è solo sotto la costrizione di Sakura che per la prima volta mangia le interiora e i dolci occidentali, per la prima volta vede una diciassettenne fronteggiare e battere dei malviventi, per la prima volta viaggia e racconta bugie, per la prima volta gioca a obbligo o verità, per la prima volta dorme nello stesso letto con una ragazza, per la prima volta scopre gli istinti e le pulsioni, per la prima volta prende un pugno e viene consolato. Per la prima volta empatizza, per la prima volta barcolla, per la prima volta si preoccupa per un ricovero ospedaliero, e per la prima volta riesce finalmente a perdere il controllo, a scoppiare a piangere disperato, mentre si rende conto che l’ostentare sicurezza e gioia di Sakura nient’altro era che la sua disperata resistenza all’ancestrale e inevitabile paura/consapevolezza della morte, e che solo lui, Haruki, con la sua apparente impermeabilità di fronte al suo dramma, con la sua apparente non-tristezza, era la sua unica possibile fonte di allegria, la sua luce per andare avanti fino alla fine, senza menzogne e senza lacrimose cerimonie. Per Haruki gli altri esseri umani erano sempre e solo stati un gioco di classificazione e di immaginazione, catalogati in un ruolo e in un modulo di pensiero per intuizione, senza avere quasi mai avuto contatto diretto, senza avere mai scambiato una sola parola. Tanto da non chiamare mai, in quell’unico e sempre più totalizzante rapporto che lo cambierà per sempre, Sakura per nome, proprio per non finire per darle un ruolo in cui, come con tutti gli altri, cercare di immaginarla, dando prevedibilità ai suoi pensieri e ai suoi gesti, negando quel quotidiano e sincero scoprirsi a vicenda per scoprire se stessi. Non chiamarsi per nome è l’unico modo per vivere realmente il loro rapporto, l’amicizia, forse l’attrazione, l’imparare a sopportarsi e poi lo scoprirsi affezionati giorno dopo giorno, consapevoli di doversi perdere ma sempre più intensi nelle esperienze quotidiane. Esperienze di crescita, di condivisione, di relazione con gli altri come senso ultimo e fondamentale della vita.
Avevano bisogno l’uno dell’altra, Sakura e Haruki, proprio come il fiore di ciliegio ha bisogno della primavera, e come la primavera ha bisogno del fiore di ciliegio. Avevano bisogno di trovarsi, così opposti e così complementari, così lontani e così vicini. Avevano bisogno di relazionarsi, di convivere, di smascherarsi l’un l’altro, di «addomesticarsi» a vicenda, come la Volpe e il Piccolo Principe nel capolavoro letterario di Antoine de Saint-Exupéry, quell’unico libro che la grezza Sakura ha letto e il divoratore di carta Haruki non ancora, il cui prestito diventa legame, promessa, senso dell’amicizia, del provare affetto, della condivisione, della socialità, della vita. Voglio mangiare il tuo pancreas, in questo continuo scambio in cui al centro ci sono la condivisione, la convivenza, l’incontro e l’umanità, si pone come un ponte culturale fra occidente e oriente, che sulle profondissime tematiche esistenziali già di Saint-Exupéry innesta una storia di vita e di morte fatta delle liriche e dei simboli più eterni e ancestrali della tradizione giapponese. Una storia profondamente sincera, commossa e commovente, che guarda direttamente ai più grandi maestri (in testa Isao Takahata, il cui miracoloso Una tomba per le lucciole, pur rimanendo ampiamente a distanza di sicurezza, quasi sembra riecheggiare nell’incipit e nella struttura narrativa e poetica), e che per lo meno a tratti trova apici inaspettati e irresistibili. Parlando di amicizia, di sentimenti, di socievolezza, di stare fianco a fianco, in un conto alla rovescia che nient’altro è che continua allegoria dell’ignoto. Tanto che non sarà il pancreas a uccidere Sakura, ma il degenerare in violenza di quella stessa società che è senso e mistero della vita anche nella sua ambiguità, nella sua piega inaspettata, nel suo lato più tragico. Certo, non è un film perfetto, Voglio mangiare il tuo pancreas, in sala per tre giorni da lunedì 21 gennaio a continuare il prezioso lavoro di Dynit e Nexo Digital nel portare in Italia il meglio dell’industria anime. Da un lato c’era il budget non propriamente principesco a disposizione dello Studio VOLN, che emerge qua e là in qualche rigidità di troppo in una pur buonissima animazione parziale dei personaggi e in qualche fondale forse non curato quanto gli altri (si veda su tutti il paesaggio appena abbozzato e colorato in maniera non del tutto convincente dalla finestra dell’ospedale), e dall’altro c’è un uso troppo smaccatamente televisivo e fanciullesco delle musiche e delle parti cantate, dalla sostanziale “sigla” di una qualsiasi puntata seriale sulla quale scorrono i titoli di testa alle note che partono quando un silenzio avrebbe detto tutto, di fronte al tramonto oppure ai fuochi d’artificio. Quasi come se ci fosse una piccola indecisione di fondo sul target, fra la profondità e il dolore assolutamente per adulti e le canzoncine per bambini. Ma si tratta di piccoli limiti, di difetti perdonabili per di più in un esordio, che non minano nemmeno per un attimo la sincerità di Voglio mangiare il tuo pancreas, né il suo cuore, né la sua profondità, né la sua potenza. Quello che rimane è un uomo nuovo, finalmente in grado di comprendere, di ricordare, di provare eterna gratitudine, di amare, di commuoversi ancora, e per sempre, di fronte a ogni petalo che vola. E un pacchetto di fazzoletti ormai vuoto nelle mani.
Marco Romagna