Prima è un sogno ricorrente, poi una mancanza, un desiderio, un’ossessione, una frattura, un ritrovarsi. Un’odissea emotiva e di vita, e infine un abbraccio nel quale sciogliersi e finalmente commuoversi quando non si tratta più di assecondare per amore, ma di vivere fino in fondo tutta l’intensità affettiva della propria famiglia – «basta cu ‘ste scemità, ce pensammo nuje a casa». Forse il momento che più di tutti racchiude il senso più intimo del cinema di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, l’apice emotivo e concettuale del loro percorso artistico che parte dal vero per rielaborarlo in finzione ma non potrà mai smettere di ritornare al vero, agli esseri umani che lo animano, alla vita e alle sincerità quotidiane. Un cinema di attori non professionisti chiamati a interpretare una proiezione più o meno fittizia di se stessi, magari con un altro nome e in differenti circostanze ma con le stesse identiche emozioni, e di traiettorie che si sfiorano fino a intersecarsi nella vita così come nel racconto, nella realtà così come nella messinscena. Al punto che l’esordio alla (più o meno) finzione Californie non poteva che ripartire dalla palestra dell’ultimo (più o meno) documentario Butterfly e da quella ragazzina, Khadija nella realtà e Jamila sullo schermo, che sognava di diventare come Irma Testa, e allo stesso modo Vittoria, presentato fra gli Orizzonti Extra di Venezia81, non può che tornare al salone da parrucchiera di Torre Annunziata che dava il nome a Californie e lavoro alla sua giovane protagonista per mettere questa volta al centro la proprietaria Marilena Amato (che qui secondo il medesimo schema inonda della propria verità il personaggio fittizio-ma-non-troppo di Jasmine) e la propria famiglia, chiamandola al gran completo al sostanziale reenactment, pur traslato dal 2016 al 2023 della festa scudetto del Napoli e in generale dalla biografia alla finzione, di un ben preciso episodio di vita reale da lei stessa raccontato ai due registi durante le riprese del film precedente. Un episodio che, appunto, nasce da un suo sogno ricorrente e sempre più ossessivo dopo la morte del padre, quello di abbracciare, di sentire propria e di crescere amorevolmente anche una figlia femmina dopo i tre maschi che le sono capitati in sorte, fino alla decisione praticamente da sola, non disposta a passare da una quarta gravidanza e dall’inevitabile casualità delle combinazioni genetiche, di scegliere il percorso non certo meno tortuoso delle adozioni internazionali. Un percorso nel quale forzare la mano – anche all’etica – per poter scegliere il sesso, ma soprattutto nel quale re-imparare tutti, non solo la protagonista, ad amare di un sentimento ancora più puro e disinteressato, scollegato dalla genetica e proprio per questo se possibile ancora più profondo e altruista, in cui finalmente vedere in una bambina orfana fino a quel momento sconosciuta e dall’altra parte del mondo la propria figlia, a cui regalare una vita e un’unità domestica nella gioia quotidiana di vederla crescere. Ma anche un percorso di inevitabili tensioni più e meno esplosive, nel quale dover persuadere un’intera famiglia a costo di rischiare di distruggerla, e poi nel quale sopravvivere insieme a stress, strettoie burocratiche, viaggi, incomprensioni, traumi, frizioni, non detti trattenuti fino all’esaurimento nervoso o forse per anni, e che adesso riemergono naturalmente di fronte alla macchina da presa di Cassigoli e Kauffman palpabili e infinitamente veri.
Come se il rievocare momenti e stati d’animo di un periodo giocoforza difficile, dopo averlo già felicemente superato nella vita (la “vera” Vittoria, verrà detto nei titoli di coda, ha 14 anni e da 8 vive benissimo con i protagonisti), consentisse definitivamente ai coniugi e ai loro figli di mettere sul piatto tutto ciò che al tempo era rimasto inaffrontato o dissimulato per riviverlo, e il cinema che ne coglie tutta la più intima verità del loro percorso nient’altro fosse che l’unica possibile occasione per risolverlo in ogni sua sfaccettatura di fronte all’occhio accorato della macchina da presa. Superando ancora una volta insieme le difficoltà, se necessario anche genetiche e cognitive, con la robustezza dei legami, con la cura reciproca, con l’affetto incondizionato di una madre, di un padre, di un fratello, di una famiglia felice. Sospesi tra la realtà, la (ri)scrittura, la finzione, l’intimo, l’universale, lo schermo, la vita, la ricostruzione, la libera reinvenzione, e probabilmente chissà quanti altri possibili film già incontrati lungo la via e semplicemente accennati forse in attesa di ritornarci, fra il padre della protagonista morto di cancro per l’amianto degli stabilimenti di Bagnoli e il relativo risarcimento alla famiglia dopo una causa all’azienda che non potrà restituirgli la vita e forse nemmeno riportare la giustizia, o il laboratorio artigianale che il marito falegname decide di aprire a Capri e il primogenito ormai cresciuto che impara il lavoro della madre e sembra felice in famiglia, ma che in seguito a una crisi di panico deciderà partire per Milano e vivere da solo. Come altre schegge di una verità che – al pari dei lavori di Luzi-Bellino, o di Jonas Carpignano, o di Ciro De Caro, ma in una sfumatura ancora differente e personalissima – non termina con i titoli di coda, ma che non potrà che andare avanti senza limiti né confini, deflagrando da ogni singolo personaggio e da ogni singola situazione (ri)affrontata in scena: quello che conta è non smettere mai di essere se stessi, quello che conta è saper guardare, quello che conta è sentire le emozioni vecchie e nuove. Ben oltre la struttura narrativa, ben oltre la centralità della protagonista, ben oltre il compenetrarsi fino a coincidere del vero e del recitato, ben oltre lo stesso cinema. Tanto più in una reimmersione nei giorni più difficili, ma anche nell’apice della gioia e della tenerezza, che lo schermo panoramico di Vittoria (non certo casuale il radicale cambio di formato dai 4/3 volutamente oppressivi di Californie, come a voler allargare già dalla composizione dell’immagine gli orizzonti cinematografici e umani) racconta con emozione in insistiti campi-controcampi a mano fatti di intensissimi primi piani che cercano sempre la luce nel fondo degli occhi. Come se, quasi a ribaltare la teoria hitchcockiana della fetta di torta, i film di Cassigoli e Kauffman fossero sempre e comunque fette di vita, in cui nessuno strato di finzione, nessuna metafora e nessun adattamento narrativo potranno mai nascondere o edulcorare la realtà più intima degli esseri umani che lo ispirano, che lo animano e che ne fanno parte, ma anzi esattamente all’opposto non faranno altro che rilanciare ciò che in loro sembrava sopito, in qualche modo forzandoli a rimetterlo sul piatto e sullo schermo. Più veri del vero nel (ri)pensare sinceramente se stessi, la propria personalità, i propri dissensi e le proprie scelte di vita, e proprio per questo, da non-attori, così straordinari e vibranti nelle loro performance, nelle vere emozioni e nei veri sentimenti che donano alla narrazione. Una verità commovente e mai “costruita” che non si limita alla famiglia, ma che è la stessa del contesto sociale, intriso di quella napoletanità autoironica e sfacciata che innalza cori al fuoco del Vesuvio per esorcizzare la paura non detta, e comunque in qualche modo accettabile e accettata nell’essere realmente parte della città, di un’eruzione. Una napoletanità fatta di tarocchi rivelatori e di feste gender-reveal un po’ pacchiane a cui invitare amici e parenti per ballare insieme una canzone neomelodica, fatta di pranzi allargati alla tavola di cucina (magari da abbandonare per andare a litigare in camera da letto) e di cene sul balcone per combattere la calura, ma fatta anche di quel cuore che non può che sciogliersi all’istante di fronte a un bambino che ha un così evidente bisogno di aiuto, di normalità, di gentilezza, di affetto, di umanità. Di ricominciare a vivere e a sorridere. Di una caramella, di un abbraccio, di una lacrima finalmente di gioia. Di un fermo immagine. Della catarsi di un film magari produttivamente piccolo, ma semplicemente bellissimo.
Marco Romagna