VITTIME DI GUERRA (1989), di Brian De Palma
Il senso più intimo di Vittime di guerra, la sua dolorosa spinta etica, viene esplicitato quando il film di Brian De Palma è apparentemente già finito e buona parte dei titoli di coda sono già passati sotto gli occhi degli spettatori. Sta tutto in un cartello, che dalla finzione del film ritorna per iscritto alla realtà, alla pagina, fra le più buie dell’intera spedizione americana in Vietnam, denunciata al tempo dal giornalista Daniel Lang sul New Yorker partendo dalla testimonianza dell’unico fra i militari che si era rifiutato di partecipare al rapimento, allo stupro di gruppo e all’omicidio di una giovane donna vietnamita. I soldati statunitensi responsabili della mattanza che in Vittime di guerra vengono condannati a pene ultradecennali, ricorda il cartello, nella realtà sono stati giudicati alla stregua di ragazzini dispettosi colti a commettere una marachella, appena sfiorati da leggere pene quando non addirittura assolti, con le loro stesse confessioni ritenute “inammissibili” in un capolavoro di insabbiamento militare. La corte marziale chiamata a pronunciarsi riguardo i soldati protagonisti della catena di orrori e torture, nell’emettere la non-sentenza, commise in un certo senso un atto ancor più grave del crimine stesso, come se in tempo di guerra qualsiasi aberrazione fosse consentita e legittimata, come se facesse in un certo senso parte del gioco, come se davvero “non ci si potesse aspettare altro”, e in quanto tale andasse accettata di buon grado senza più un briciolo di umanità, senza vergogna né compassione, senza più nemmeno un barlume di onestà ad annidarsi fra le maglie della legge.
In questo senso Vittime di guerra, prima ancora che un film sull’orrore bellico, sui crimini e sulle vittime, sull’abiezione morale e sui sensi di colpa, sull’ossessione e sul trauma, sul doppio etico e su quello realtà/messinscena, è (stato) negli intenti di De Palma una disperata ricerca di giustizia, un riportare almeno nel sogno di chi è innocente, e quindi nel cinema, fabbrica di illusioni che è al contempo completamento e opposizione alla realtà, un minimo di equità e di sentimenti ribaltando deliberatamente, e poi dichiarando questo ribaltamento a imperitura memoria (e probabilmente vergogna), la reale conclusione della vicenda processuale. Ma non si pensi, con queste premesse, a un semplice film di denuncia socio-morale: Vittime di guerra, fra il film bellico e il melodramma, fra il dramma etico e la lotta di un uomo ormai solo per fare emergere la verità, lambisce anche quel filone, ma De Palma mai dimentica la complessità delle situazioni, le implicazioni e le stratificazioni, i traumi e le sfaccettature. Del resto, la mentalità disumana e ai limiti della patologia degli aggressori è stata, a monte, costruita e caldeggiata da quello stesso sistema di Potere che li ha successivamente giudicati. Un Potere che ha bisogno, si è servito e sempre si servirà delle sue perfette macchine da guerra xenofobe e violente, e che non può permettersi, dopo averle plasmate e sfruttate, dopo averle masticate e sputate, di punirle con severità senza ritrovarsi al puro paradosso, all’apice della propria ipocrisia. De Palma sa perfettamente che il “suo” finale, nella realtà, sarebbe stato impensabile senza che i carnefici diventassero a loro volta (ancor di più) Vittime di guerra, ed è da questa ambiguità dicotomica fra oppressore e oppresso, fra aguzzino e perseguitato, che nascono tutte le innumerevoli riflessioni di uno dei capolavori più complessi dell’intera carriera depalmiana. Sarebbe quindi estremamente riduttivo concentrarsi solo sugli avvenimenti rievocati in scena e sul chiaro afflato pacifista di De Palma, contenuto che pure creò forti pruriti ai veterani del tempo e costrinse la prima incursione bellica del regista a un clamoroso insuccesso al botteghino subito dopo i fasti e il bagno di notorietà de Gli intoccabili. Perché Vittime di guerra è molto di più, e la sua grandezza non sta tanto nel “cosa”, nella denuncia dei crimini di guerra e delle ipocrisie del Potere, ma nel “come”, nelle scelte di regia che innestano il dilemma etico – o meglio, l’opposizione etica diavolo/acqua santa fra i due protagonisti – in una nuova e inedita declinazione del tema del doppio, rievocazione di quelle che sono sempre state, nel corso di tutta la carriera, le principali ossessioni di specularità, punti di vista e frammentazione di Brian De Palma come specifico sia del mezzo cinematografico, sia delle vicende e dei personaggi messi in scena.
Non è certo un caso che il film si apra con il soldato Eriksson (un Michael J. Fox al tempo affamato di ruoli il più possibile distanti da Ritorno al futuro con i quali allargare gli orizzonti prima del triste sopraggiungere della malattia) nella contemporaneità del 1989, e che il suo ritorno agli avvenimenti del ’66 sia un incubo ricorrente che si ripresenta ogni giorno, magari in metropolitana, magari nella vita (mai più tornata) normale. Inizia con il suo disturbato e (ancora) scioccato addormentamento, Vittime di guerra, e il lungo flashback nel quale è innestata quasi tutta la narrazione del film è il suo sogno in viaggio, è la sua immersione onirica nei ricordi più atroci, è il suo (quotidiano) ripercorrere gli eventi che così tanto lo hanno segnato alla ricerca di quel minimo di giustizia che, nella realtà, la legge e la corte marziale non hanno saputo garantire. O, per lo meno, alla ricerca di un incontro, di una somiglianza, di un soffio vitale che spazzi via la morte e il suo ricordo opprimente. Le Vittime di guerra compongono una lunga schiera, alla quale non appartiene solo Tran Thi Oanh, la ragazza violentata e uccisa, ma anche tutto il suo villaggio, la sua famiglia, sua madre in lacrime mentre i soldati statunitensi, in una sorta di aggiornamento del Ratto delle Sabine, la stavano portando via per sempre. E di sicuro è una vittima anche Eriksson, tormentato da 23 anni di fantasmi per non essere riuscito a salvarla, per non aver avuto il coraggio di disertare per fuggire con lei, per non aver saputo fermare i suoi aguzzini. Che a loro volta, come già anticipato, seppur responsabili dei più orrendi crimini di guerra sono in realtà vittime. Della situazione, della pressione insostenibile di un conflitto senza senso, della solitudine, del non potersi fidare di nessuno, di un Potere che li vuole pronti a tutto contro il “nemico”, e forse soprattutto di loro stessi, ormai fuori controllo fra astinenza, paura, machismo e probabilmente pure qualche anfetamina, ormai pronti a sfogare le proprie frustrazioni sulla popolazione civile senza più alcuna remora. Sono uomini ormai patologici, mostruosi, a tratti quasi demoniaci, eppure sono pur sempre esseri umani presi di peso e lanciati in una realtà agghiacciante, immotivata, nella quale forse è meglio impazzire che scoprire il fianco mostrando i propri punti deboli. L’unico vero carnefice, fra le tante e variegate Vittime di guerra, è proprio il Potere, quel Potere (militare, economico, politico – ha molte facce) che ha voluto e ha reso possibile un orrore assoluto come il (fallimentare) conflitto in Vietnam, nel quale per un soldato l’atto più giusto, umano e straziante possibile era mentire spudoratamente a un compagno colpito al collo e destinato a morte certa dicendogli che se la caverà, e dandogli un impossibile appuntamento alla prossima battaglia. Vivendo così l’ennesimo shock, l’ennesimo momento di amarezza, un apice umano che forse non può che preludere alla perdita di umanità, alla vendetta trasversale, alla rappresaglia. A breve non esisterà più pietà, non esisterà più compassione, non esisteranno più sentimenti, e al di là dei vietnamiti “nemici”, anche quando la giovane recluta americana perderà la vita nessuno si scuoterà più di tanto, non era un veterano, non era (ancora) importante. L’affetto e lo spirito d’appartenenza vengono sostituiti dall’odio per il Vietnam e tutti i suoi abitanti, dal germe della vendetta e dalla volontà di soddisfare le proprie voglie, a costo di declinare il proprio egoismo e la propria corazza nei modi più turpi.
Eppure, anche nelle peggiori derive etiche, morali, psicologiche (o meglio psichiatriche) e comportamentali di Meserve e dei suoi sodali, non c’è mai reale gratuità. Perché, come già detto, quella messa in scena da Vittime di guerra è una situazione estremamente complessa, nella quale è necessario tentare di capire tutti i punti di vista in ogni singolo livello del fitto strato di cause che sono deflagrate in un simile atto. Già, deflagrate, come le bombe, come i raid aerei, come il caos della battaglia. Il ricordo traumatizzato di Eriksson riporta subito il soldato, e lo spettatore, in medias res, nel pieno dell’orrore dei combattimenti, dei tradimenti, degli amici colpiti, mentre i Vietcong spuntano da ogni anfratto apparentemente coperti, nascosti e aiutati dall’intera popolazione. Eriksson si trova bloccato in una delle loro trappole, le gambe in un buco nel terreno, il tronco fuori, quasi inerme fra i colpi che impazzano sibilanti e le continue esplosioni, mentre De Palma entra per la prima volta in guerra con un movimento di macchina miracoloso, che fa subito intuire i diversi piani su cui si strutturerà la teoria alla base della narrazione. Nei tunnel sotterranei costruiti dai vietnamiti, un killer sta strisciando per giungere a uccidere il Marine immobilizzato, ma subito prima del suo arrivo sarà proprio il sergente Tony Meserve (uno strabiliante Sean Penn meravigliosamente sull’orlo della patologia psichiatrica) a salvare la vita di quello che in seguito sarà il suo principale accusatore. De Palma gestisce la situazione come un doppio inseguimento fra sopra e sotto il livello del terreno, fra il visibile e il sommerso, fra un tipo di orrore e l’altro, fra una violenza e l’altra. E quindi, in un certo senso, fra la realtà e la messa in scena, o per lo meno fra due (o più) differenti sguardi, punto da sempre cardine del suo cinema, vero e proprio centro nevralgico concettuale che qui costituisce una sorta di anticipazione tematica di ciò che diciotto anni dopo, ancora in ambito bellico e ancora sulla scia di orrendi crimini sessuali perpetrati dai Marines, verrà portato alle estreme conseguenze con Redacted, sorta di aggiornamento, controcampo iracheno e perfezionamento teorico di questo Vittime di guerra che si porterà a casa il Leone d’Argento per la miglior regia a Venezia 2007.
Nelle sue molteplici chiavi di lettura, Vittime di guerra è forte di un apporto teorico e politico che riflette al contempo sulla guerra e sul cinema, sulle aberrazioni morali dell’uomo ingabbiato in un campo militare e sulle crisi di coscienza che solo la totalità dei punti di vista può mettere in scena, sull’etica di chi non accetta e sulla non etica di chi nega l’evidenza e poi insabbia, sul Potere che sfrutta e calpesta. È un discorso autoriale potente e stratificato, di fronte al quale verrebbe naturale pensare a un cinema dilatato e riflessivo, ma De Palma, da grandissimo intessitore di vicende, non perde un solo minuto all’interno del suo mirabile congegno narrativo. Non dimentica mai di raccontare una storia, di intrattenere, stimolare e scioccare il pubblico, di ritmare la sua visione e di ipnotizzarlo con il sublime, magari con gli strepitosi arancioni dei tramonti sul Sud Est asiatico, restituiti dalla straordinaria stampa 35mm proiettata al Torino Film Festival 2017 nel loro splendore originale fotografato da Stephen Burum con una saturazione che sarebbe impossibile da replicare per qualsiasi dispositivo digitale. Quella di Vittime di guerra, nella sua “vera” colorazione da stampa d’epoca, è una gamma di colori che non può che ricordare Apocalypse now, rievocato apertamente da De Palma non solo nella cura fotografica che guarda vistosamente a Storaro e a Coppola, non solo nella contestualizzazione storica e geografica della guerra in Vietnam come conflitto folle e totalizzante, ma anche nel rapporto fra l’uomo (solo) e l’orrore, che nel capolavoro di Coppola in impernia su ogni aspetto del conflitto, mentre in quello De Palma si concentra specificatamente sull’incancrenirsi dei rapporti fra gli esseri umani e fra i loro punti di vista. “Jesus, we are supposed to help these people”, dirà espressamente Eriksson a Meserve dopo il rapimento di Tran Thi Oanh, in una forbice etica ormai non più ricomponibile, in due visioni della guerra, del mondo e delle circostanze ormai incompatibili. Ma ormai “This is only a gun”, risponderà più tardi Meserve brandendo il fucile, per poi indicarsi le parti basse ringhiando “but THIS is a weapon”: l’unica vera arma con cui nuocere davvero al nemico, a un certo punto dell’avanzare della follia, diventa quella che sta fra le gambe. Un’arma con la quale sentirsi forti, imporre la propria egemonia, calpestare la dignità e i minimi diritti di un essere umano con le sole colpe di essere vietnamita, donna e “la più carina” del villaggio.
Se le situazioni, in Vittime di guerra, sono sempre complesse e ambigue, i due protagonisti sono al contrario necessariamente definiti, per lo meno a un primo sguardo, come il Bene e il Male. O meglio, sotto la corazza da spietato psicopatico e criminale di Meserve si nasconde una lunga serie di stratificazioni, ma De Palma le lascia intelligentemente su un livello di lettura più profondo, costruendo invece sulla superficie un “buono” e un “cattivo” di necessarie esagerazioni per poter continuamente sottolineare nella scrittura e nella messa in scena la differenza abissale fra i loro punti di vista. Eriksson e Meserve sono due personaggi che si oppongono come un angelo e un demone, come un santo e un dannato, come un giusto e un iniquo, come un innocente e un colpevole, posti anche fisicamente da De Palma sui diversi livelli della profondità di campo e su differenti illuminazioni all’interno dello stesso fotogramma, e incorniciati in splendide inquadrature oblique di memoria quasi espressionista nei momenti più tesi. Mentre, nel frattempo, molti dei quadri sono gestiti dal regista come se fossero uno split screen, magari con una tenda a separare, al posto della “classica” riga di confine, un Meserve già sull’orlo della dissociazione che si rade pregustando gli incontri bollenti nel villaggio dagli altri, Eriksson e i commilitoni, lasciati quasi sullo sfondo come impotenti pedine in attesa degli eventi. Fino a quando, nel frullato di generi e riflessioni sul ruolo del cinema con cui gira intorno alle situazioni belliche, De Palma si concede pure un’incursione volutamente e necessariamente ridondante nel thriller hitchcockiano, con la soggettiva del killer pronto a tentare di garantirsi l’impunità installando una bomba nella roulotte del principale testimone d’accusa proprio quando nessuno fra le alte cariche dell’esercito lo vuole ascoltare nel suo racconto di ciò che è successo. Finendo pure per accusarlo, per tentare di farlo sentire in colpa, per tacciarlo di mancanza di riconoscenza, come se il fatto che Meserve gli avesse salvato la vita rendesse la denuncia di Eriksson un atto di per sé infame, e non il disperato tentativo di riparare a un torto per il quale non esistono scuse.
L’adrenalina della battaglia è come una droga, che totalizza, che obnubila, che cancella l’umanità, e che anzi la rende una debolezza, una vulnerabilità sulla quale far attecchire i ricatti psicologici, come nel caso del soldato Antonio Diaz, inizialmente contrario quanto Eriksson agli atti orrendi perpetrati dai commilitoni, ma poi costretto a partecipare allo stupro di gruppo della giovane rapita per non dimostrarsi un debole, un indeciso, un omosessuale. Messo con le spalle al muro dai suoi compagni e dal suo non dover essere mai da meno, si macchia degli atti più orribili per essere accettato, per fare parte di qualcosa anche quando quel qualcosa sta marcendo. Ma anche in quel momento, fra Diaz e gli altri colpevoli rimane una differenza morale, fra chi ha goduto e ora si gode lo spettacolo e chi si strugge e si vergogna, fra chi non ha il minimo rimorso e chi si rode nel dramma etico, fra chi sta in primo piano e chi si allontana nella profondità di campo, fra chi è illuminato dalle tonalità fredde della notte e chi si perde sullo sfondo nel calore giallastro della triste, atroce, criminale alcova. De Palma, fermo nelle sue posizioni antimilitariste e antibelliche ma al contempo ben lontano da qualsivoglia retorica forcaiola, analizza le situazioni in ogni loro possibile sfaccettatura, chiedendosi prima di tutto come sia possibile un simile degradarsi della morale umana, cercando apertamente le cause che stanno alla base degli (atroci) effetti, ricostruendo minuziosamente la psicologia che il conflitto impone, fra la parte sana dello spirito d’appartenenza e le derive psicotiche e criminali d’arroganza, sfogo e autodeterminazione che una simile situazione può creare.
Vittime di guerra è, come del resto lo è tutta la filmografia di De Palma, un film di ambiguità e di eccessi, di situazioni complesse e mai univoche, di dilemmi etici che si innestano in una messa in scena che sempre spezza e frammenta i punti di vista. Nel suo rutilare di generi e traumi, nelle sue iperboli e nelle sue riflessioni sul potere (o forse impotenza) dello sguardo, De Palma confeziona un’altalena fra lo strazio e l’orrore, fra la frustrazione e le atrocità commesse come sfogo, fra l’umanità commovente di chi cerca senza successo di curare e salvare la vittima dai propri commilitoni e la bestialità insensibile ormai completa di chi, dopo averla rapita e usata alla stregua di carne da macello, ora vuole che gli altri (non lui, gli altri) la uccidano perché la sua tosse non faccia scoprire al nemico il loro avamposto. Fra l’ipocrisia del Potere e quella di Meserve, fra le ambiguità morali e le infinite sfaccettature alla base di un simile atto, fra la “verità” messa in scena e il cartello conclusivo che la smentisce, Vittime di guerra è un film straordinariamente stratificato, fatto di acute riflessioni e di infinito amore per il cinema, di grida strozzate e di lacrime amare, di silenzi omertosi e di ipocrite sentenze. Ma soprattutto di etica cinematografica, pura, rispettosa, che si avvale del mezzo per cambiare la Storia, o per lo meno il suo finale. Ben conscia dell’impossibilità di renderlo meno amaro.
Marco Romagna