VITA TERRENA DI AMLETO MARCO BELELLI (2022), di Luca Ferri
In principio è il quadrato, così perfetto e intrinsecamente simbolico nelle identiche proporzioni del formato 1:1. Un quadrato magico come quello della matematica, palindromico come quello del Sator, occulto come quello della Cabala. Un quadrato forma di tutte le forme, nel quale non cercare necessariamente risposte, ma piuttosto altre domande, altri dubbi, altre professioni di fede, o magari altre risate di scetticismo e di scherno. In un viaggio dall’eccentricità del personaggio pubblico del Divino Otelma alla maschera tragica che ha sempre (in)consapevolmente incarnato nella sua ambiguità fra la convinzione e la (auto)costrizione a un eterno spettacolo, fino a fare poi riemergere l’uomo, il Marco dietro l’Amleto rovesciato del suo nome d’arte, ancora presente dietro all’ingombranza di un’identità televisiva così precisa e bizzarra, fatta di linguaggio forbito e di riti propiziatori da ripetere, di andamenti ipnotici e di tuniche colorate, di parole magiche e di taumaturgie, di candele e di granelli di sale grosso, di un continuo gioco ambiguo fra la fede, o per lo meno una ferma convinzione, e il personaggio pubblico da portare avanti a ogni costo a rischio di rimanerne fagocitati. Un’esistenza costantemente sospesa sul confine fra la guarigione miracolosa e la circonvenzione di incapace, fra il genio e la follia, fra il credere e il far credere, fra l’essere e l’apparire, fra l’incarnare e il recitare. Fra lo studiare (fino a conseguire otto lauree) le connessioni con il divino e il soprannaturale di ogni più antica e lontana cultura e il trasformarle in pratiche esoteriche per corrispondenza o per tubo catodico, sempre sul crinale fra una (pseudo)scienza a volte – per magia o per autosuggestione – realmente salvifica, e altre sostanziale truffa (con tanto di vicende giudiziarie non ancora del tutto chiuse) che secondo le accuse sfrutterebbe la credulità dei più fragili per vendere loro rimedi che non funzionano. «Alla fine di questo progetto di Luca Ferri non sverrà svelato alcun mistero. Ognuno si farà la sua idea», dice apertamente a un certo punto l’esoterista, filosofo, dio incarnato, teurgo di Elios e fondatore del culto dei Viventi Marco Amleto Belelli, nel chiuso della sua stanza che sarebbe dovuta essere luogo dei cinquantadue incontri settimanali con il regista bergamasco, dal 21 marzo 2020 al 6 marzo 2021, e che invece (coerentemente con il “portare sfiga” che la vox populi non solo genovese imputa a Otelma, ma anche con il rigore registico di Luca Ferri e soprattutto con l’Assenza concetto chiave della pentalogia di cui Vita terrena di Amleto Marco Belelli è l’episodio centrale) l’improvviso scoppio della pandemia e i conseguenti divieti di spostamenti e lockdown hanno imposto al filtro dematerializzante della webcam di Skype, fino all’annuncio dell’incontro finalmente fisico – e quindi coerentemente fuori campo – fra i due del successivo 10 luglio.
Un anno esatto di appuntamenti, come già con Pierino ma questa volta online, attraverso i quali cercare sempre maggiore confidenza, sempre maggiore profondità della persona oltre la corazza del personaggio, sempre maggiore sincerità, sempre maggiore malinconia, sempre maggiore e (in)atteso cuore. Tanto che Luca Ferri, come sempre inflessibile nella scansione temporale (con tanto di date e titoli/capitoli costantemente in sovraimpressione ai lati del quadrato che incornicia le videoconferenze del protagonista) e nel mostrare almeno un momento di ogni singolo incontro virtuale, non si fa questa volta problemi a “contaminare” la granitica struttura del suo film inserendo i fuori programma di Whatsapp, i suoi carteggi vocali con il protagonista, e soprattutto i videomessaggi verticali, alcuni spontanei e altri commissionati come in una sorta di regia a distanza di soggettive e narrazioni in prima persona (plurale), di un rapporto umano che cresce sotterraneo, come a erodere progressivamente la lontananza fra via del Campo e le Orobie che si stagliano sotto il cielo azzurro. Dall’ironia sorniona di una maglietta che «diventerà senz’altro un mio pigiama» allo scambio reciproco di doni, agli scambi dialettici, ai confronti intellettuali, fino a quell’unico «io» commosso di nostalgia che scapperà al Divino fra i suoi tipici plurali maiestatis proprio di fronte alla tomba della madre, punto di origine e sua personalissima principale mancanza, la più sofferta assenza fra le infinite concatenazioni di assenze con cui Luca Ferri, dopo la lettera immaginaria di Sì e i Mille cipressi di Scarpa all’ingresso della sua Tomba Brion, sfrutta la contingenza per rimanere per la prima volta personalmente assente (così come è assente la macchina da presa, sostituita dal low-fi dei meeting online) al momento delle riprese. Del resto, a ben vedere, tutto il suo progetto di cercare nel suo primo film ‘genovese’ la Vita terrena di Amleto Marco Belelli nient’altro è che l’inseguimento di un altro grande assente, di quella persona sormontata dal personaggio, in qualche modo ormai subordinata anche nel privato all’identità pubblica del Divino Otelma, o per lo meno ormai inscindibile in una personalità complessa, controversa, manipolatoria, misteriosa. Affascinantissima nella sua smisurata cultura contrapposta alla sua eccentricità. Un plurilaureato di intelligenza sopraffina e di conclamata sensibilità che ha deciso in sostanza di fare di se stesso un’opera d’arte, fondando la sua intera vita sull’occulto e sull’ambiguo, su un lessico aulico e sul dubbio impenetrabile fra fede e finzione, fra potere occulto e raggiro, fra convinzione e spettacolo, fra genio e ciarlatano, fra sacerdote e saltimbanco, senza mai lasciare ad alcuno, tanto meno a Luca Ferri, la possibilità di trovare un reale confine.
Tanto che viene quasi da pensare che in fondo Vita terrena di Amleto Marco Belelli, fra le più alte vette del 40mo Torino Film Festival e forse a oggi miglior lavoro di Ferri, sia sostanzialmente una co-regia, un reciproco collaborare alla costruzione di una narrazione in cui l’autore Divino Otelma si mette ancora una volta in scena e declama se stesso sul limitare fra pubblico e privato, sfruttando per la cassa di risonanza del cinema di Luca Ferri almeno quanto l’autore Luca Ferri tenta di scavare nel personaggio del Divino Otelma tentando invano di sviscerarlo, di leggere oltre la sua corte di misteri, fino a rendersi definitivamente conto dell’impossibilità di trovare una risposta certa, una verità univoca: è una questione di fede, di caso, di volontà, di convinzioni. Di dialettica. Di reciproco acume. Da una parte la comprensibile ricerca di un rilancio e magari nuovi proselitismi, e dall’altra uno scetticismo che diventa progressivamente dubbio, stima, a suo modo affetto, così centrale nel sempre più chiaro percorso “sentimentale” del cinema di Luca Ferri dal glaciale e ironico cinismo dei primi lavori verso una progressiva umanizzazione. Basta lasciare Belelli libero di parlare di vita e di morte, di spettacolo e di ricordi, di reincarnazione e di stimoli culturali. Basta interrogarlo riguardo il suo daimon, basta chiedergli di mostrare i suoi feticci e di raccontare le sue fotografie, basta inviargli libri e film per discernere insieme dell’architettura di Peter Zumthor e de Il colore del melograno di Paradžanov. Basta parlare della sua carriera di mago, della sua carriera discografica con cui attraverso La coniglietta rosa attaccare l’incapacità umana di accettare le diversità, della sua personale filosofia mistica di ritualità e reincarnazioni, dell’appoggio ricevuto da Cossiga e delle accuse ricevute da Pasini, della sentenza della Cassazione che lo ha riconosciuto operatore dell’occulto e dei matrimoni pansessuali – «la bisessualità è insita nella natura umana» – celebrati dalla sua Chiesa dei Viventi («per il fondatore di un nuovo culto si aprono solo due strade, o la chiesa o il manicomio», diranno di lui), riguardo la quale “il venditore” Otelma non manca di ricordare come le necessarie informazioni siano «reperibili sul sito». Basta una breve carrellata delle sue apparizioni televisive, basta fare uno scroll delle sue immagini reperibili su Google, basta chiedergli degli oggetti di casa fra le fotografie con i VIP, gli arrivi in calesse a De Ferrari e le reliquie del suo essere, della sua esistenza votata all’esoterismo. Basta contattare chi lo conosce al di fuori della maschera pubblica, i professori universitari che ne stimano profondamente le doti intellettuali, i vecchi amici più volte aiutati che bene ne conoscono la sensibilità, l’umanità, il dolore. Lo stesso di quando il tono imperturbabile del Divino sembra solo per un attimo cambiare quando pensa che «nostra madre era bellissima», quando rimpiange di non essersi mai dichiarato da ragazzo con la giovane Maria, o quando ricorda l’ultimissimo sorriso di uno zio prima di stramazzare morto al suolo. Tanto «la morte non esiste, si cambia solo dimensione corporea». Al punto che «ci piacerebbe che il nostro funerale fosse una grande festa». Il momento di raggiungere la madre, forse, per poi reincarnarsi ancora, in un’altra forma, magari migliore, magari senza più traumi passati, magari senza più assenze irrisolvibili. Come se, dall’impenetrabile del Divino Otelma, Luca Ferri fosse riuscito a far riemergere un brandello di carne, una goccia di sangue, una silenziosa lacrima. Una maschera scostata di quel tanto per riuscire nell’impossibile di scorgere il vero volto, e di condividerne il dolore, la tragicità, la raffinata delicatezza. Un «presto ci incontreremo» fra le lapidi di Staglieno di fronte al quale scoprirsi, inaspettatamente, commossi.
Marco Romagna