VISAGES VILLAGES (2017), di Agnès Varda e JR
Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda coi nostri desideri.
[André Bazin]
Come se si aprisse il sipario di un teatro. Ecco scorrere i titoli di testa, i due nostri viandanti cartonati si presentano allo spettatore, è il preludio a un incontro, a una condivisione, a un passaggio. È proprio il loro incontrarsi, o almeno quella narrazione, che ci restituisce il senso del viaggio, e del film, come se solo il destino potesse conoscere un linguaggio per ogni nostro gesto, anche quando l’età ci separerebbe di mezzo secolo. A bordo di una macchina (fotografica, enorme) abbandonano il caos della città (e della società, forse) puntando verso la campagna, verso i villaggi del Nord che vivono un continuo spopolamento e che resistono in un afflato memoriale e malinconico. Incontrano innanzitutto spazi, il cui tempo è ancora rappresentato dagli abitanti che lì vivono. In marcia, sulle tracce di frammenti e attimi da preservare; le capre al pascolo e la dinastia di campanari, postini pittori e cavallerizzi, vecchi hippy e giovani collezionisti, fino all’universo femminile di un porto, con donne sedute sullo spazio del cuore dentro alle proprie gigantografie. Disseminano per il viaggio continue meraviglie, come a ricreare la magia di novelli Pollicini le cui briciole sono gigantesche fotografie create anche per disegnare una mappatura umana, evidenziare una topografia a rischio di estinzione, richiamare al senso dell’oblìo. Ogni incontro è come se fosse una prima volta.
Visages, villages, presentato fuori concorso a Cannes70, è senza dubbio è un film-saggio spiazzante, teorico e concettuale, che germina nella genesi del collage fotografico (pensando anche al senso degli albori, di Niépce e Daguerre) creando nuove spazialità nella percezione dell’essere impressionati. È un’opera che ci mostra una nuova modalità possibile del guardare (e dell’essere guardati), nella giocosa leggerezza di istinto e di senso, di prospettive nuove in una Francia sempre più distante che ha perso (come forse il mondo occidentale tutto) quei tratti identitari che ancora oggi ammiriamo nelle fotografie graffiate dalla durata del secolo scorso. Laddove una modernità inquietante prende il sopravvento, risulta più difficile vedere, ascoltare e capire le cose che ci circondano. Possa essa legarsi ai sistemi di produzione (l’allevamento), allo sfruttamento intensivo del territorio (l’agricoltura) o anche solo alla sovraesposizione alle immagini (i nuovi strumenti tecnologici e mediatici), è proprio la modernità a porsi come elemento chiave e indiscutibile della progressiva mancanza di visi nei villaggi. È proprio per questo che la Varda e JR donano agli abitanti (e ai luoghi) le loro creazioni: le loro enormi fotografie in bianco e nero ripopolano ciò che una volta era stato, e ora non potrebbe più essere. Dal soggettivo all’oggettivo, giocando a filmarsi, estendendo un nuovo spazio in un tempo futuro, seppur precario, punteggiando di segni il loro percorso e il loro viaggio. Il loro rapporto di esplorazione prosegue sguardo per sguardo, amplificando le sensazioni che donano a ogni spettatore, interni o esterni al film, che vogliono compiere questo viaggio accompagnando due timide e complici figure nel paesaggio. L’esigenza dell’autrice di tornare nei propri luoghi (appartenenti anche a molti film), viene sorretta dalla sensazione di scoperta che il giovane autore ha bisogno di provare. Ogni loro dialogo, anche provocatorio e rabbioso, racchiude il senso della condivisione e della creazione di una relazione intertestuale metalinguistica estremamente profonda nella sua tenera semplicità e che si interroga infine su una durata possibile di qualsiasi immagine.
E poi c’è il senso del cinema, e della sua esposizione, che pervade tutta la durata del film. Lei e i suoi giganteschi primi piani in Cleò, i murales variopinti di Mur, murs, e poi il collage del ragazzo che (ri)abita il pavimento del Pantheon di Parigi. L’omaggio alla tomba (e all’occhio) di Cartier-Bresson e gli occhi sempre di lei oramai fragili e stanchi, aperti per essere medicati, feriti come quelli di Buñuel. Proprio perché al cinema, per questa eterna ragazza della Nouvelle Vague, ci sta tutto, e forse solo lì, proprio lì, si possono provare le emozioni che si ha paura di attraversare. Si può respirare la spensieratezza di scorrazzare per il Louvre vivendo di quadro in quadro, come vivificare il dolore nel ricordo. Così Guy Bourdin, il fotografo-modello amico profondo della Varda, viene raffigurato sulla carcassa di un monolite tedesco della Seconda Guerra scivolato sulle ventosissime coste della Normandia, su una perenne istallazione della storia e della mancanza. Riapparirà il fotografo e modello, sdraiato e suadente come allora, lì dove era stato fotografato mezzo secolo fa. Durerà una sola notte e poi sarà la marea a portarselo via, ma rimarrà la bellezza di un gesto, l’immagine di un’immagine (che infinite può contenere). Ancora una volta sulla spiaggia, ancora una volta su quelLes plages d’Agnès unico possibile set per l’omaggio: l’occhio, le dita dei piedi.
Rimane un’unica tappa possibile, doverosa e dovuta. Già evocata dallo splendido titolo di questo film, dalla corsa al museo e da un frammento del corto Les fiancés du Pont Mac Donald, della stessa Varda, la presenza/assenza di Godard si fa riferimento materico nella sua astrazione. Lui, forse l’ultimo gigante del cinema di coloro che l’hanno plasmato dal mondo delle idee a quello della luce, si dimostra ancora una volta distante, invisibile, duro. Lascerà una scritta alla finestra a cui la Varda risponderà. Si parla degli incontri al bar con Jacques, di cosa non potrà più essere. Lei soffre, racchiude la rabbia e la sofferenza che la mancanza del marito Demy le provoca ancora. Insulta l’assenza di Godard, e poi la ama, perché la si può solo amare. Come le lettere mobili che i suoi occhi a fatica decifravano, queste dipinte nella trasparenza di una finestra aprono la ferita del ricordo e della passione, di anni che mai torneranno ma che mai moriranno. In fondo per chi è (stato) cinema, il comunicare è possibile (solo) nel creare (altro) cinema. La macchina da presa così sparisce, rimangono la vecchia e il bambino a fianco a un albero, a specchiarsi nel lago. Lui finalmente si toglierà gli occhiali neri, gli stessi di JLG, e lei potrà guardarlo finalmente negli occhi. Convergendo con Bazin e la sua ontologia dell’immagine fotografica, il mettersi in gioco di un oggetto catturato nell’attimo, la cariatide di un tempo in un movimento, l’eternità di un’immagine al di là della sua fallibilità nella fragilità dei corpi e delle anime attraversate. Siamo fatti di carne e di immagine: la prima se ne va e la seconda rimane, almeno nella corrispondenza continua che strappa al reale un briciolo di crudeltà per purificarla in questo cinema, in questi volti sui muri, in questa immortalità.
Erik Negro