«L’immagine è droga che crea assuefazione.»
Un’immagine folle, cruda, privata di un’apparenza di un significato – ma non del senso stesso. Il regista veneto Sebastiano Montresor tra il 2010 e il 2011 ha sfornato due mediometraggi apparentemente slegati se non opposti eppure strettamente consequenziali, intitolati entrambi Vigasio Sexsploitation, con la tarantiniana precisazione di Vol.1 e Vol.2. Sempre Montresor alla sceneggiatura (in collaborazione con Alice Seghetti per il Vol.1 e con Stefano Sartori per il Vol.2), al montaggio alla regia, con fotografia curata da Daniele Trani, Chiara Pavoni come attrice presente in entrambi i film in ruoli diversi e Matteo Lucchi sempre nel ruolo di Next-Level, alieno umanoide con occhialoni zarri bianchi a sbarre stile Kanye West e una televisione senza schermo come copricapo. La distanza tra le due sezioni del film è sia narrativa sia stilistica: la prima è un convulso e corporeo dipinto corale colmo di figure che potrebbero venire sia da un delirio di Bosch che da un incubo di Lynch, sia da un poliziesco proto-noir di Mervyn LeRoy sia da Duelle (1976) di Jacques Rivette; la seconda invece è più esplicitamente legata al cinema indipendente di genere e alle derive del genere sexploitation citato così platealmente nel titolo, con il senso pseudo-antiestetico (in realtà non privo di finezze e trovate folli) di Lloyd Kaufman e il montaggio serrato e animato di Russ Meyer. Ma non è un citazionismo gratuito e sterile, bensì è una serie di riferimenti non banali che si rivela attraverso una serie di fluidità stilistiche striscianti, che portano a chiedersi quanto si possa prendere sul serio o meno nel rivedere il cinema, la sua definizione, la distruzione e la perdita di significato dei suoi corpi, e l’influenza della pornografia. Nonostante un’apparenza da esercizio di stile contorto ed “esploitativo” come i film smaccatamente arraffa-erezioni a cui Montresor si rifà, non bisogna dimenticare che il regista non è proprio il primo arrivato e non è solo uno dei mille figli bastardi del cinema giallo/horror anni ‘60/’70 che è andato col passare del tempo degenerando, nel bene e nel male. Infatti la carriera studentesca e saggistica del regista include una serie di prodotti critici e teorici di notevole ampiezza contenutistica: dalla prima laurea all’Accademia Internazionale per le Arti e le Scienze di L’Aquila alla tesi sul corpo mediatico nel cinema di Lefi Riefenstahl per la seconda laurea alla Facoltà di Lettera e Filosofia nel corso Scienze delle Comunicazioni a Verona, dalle monografie scritte su Pasolini, Kieslowski, Ejsenstejn e Tarkovskij ai saggi su Il rullo compressore e il violino (1961) di Tarkovskij, La linea generale (1927) di Ejsenstejn e Aleksandrov e La signora di Shanghai (1947) di Orson Welles, dai saggi linguistici, economici, filosofici ed estetici a un libro il cui solo titolo già può lasciar presumere un importante collegamento con Vigasio Sexploitation, ovvero L’immagine Pornografico, uno studio sulla storia, l’evoluzione, lo sviluppo e la fortuna della pornografia (2003). E questi riferimenti cinematografici “alti” sono implicati e non rigurgitati, in un prodotto che invece è smaccatamente grezzo per come riesce a spaesare lo spettatore con libertà apocalittica e destrutturazioni transessuali dei generi filmici e dei suoi dogmi.
Il film comincia in medias res trascinando in un viaggio sconfortante e ipercinetico tra “strade perdute” come quelle del film di Lynch del 1997 e tra i pixel bianchi e neri di una perforazione in una fessura ambigua di un corpo presumibilmente umano. Si penetra lentamente in un enigmatico puzzle di immagini noir in ossessioni da film muto, ma l’approccio postmoderno che sarebbe potuto essere utilizzato in questo contesto di fascinazione verso il grande cinema delle origini dal Guy Maddin di Brand Upon the Brain! (2006) e di The Forbidden Room (2015) è qui sostituito da un surrealismo gremito di figure assurde. Con un’infezione fantascientifica e romeriana come costante sottofondo, questo Vol.1 viaggia tra i deliri body-horror di un montaggio schizofrenico seguendo una serie di personaggi in un intrigo violento, folle, colmo di figure allegoriche. La figura maschile centrale è tale Agente Danger (un magnifico Andrea Bruschi), il cui nome richiama i film di Borderie e Godard incentrati sull’agente Lemmy Caution interpretato da Eddie Costantine, e al centro del film vi è un conflitto drammatico e ironico che si combatte su vari campi di battaglia: c’è la relazione morbosa tra l’Agente Danger e la “Donna-Dixan”, manifestazione evanescente del desiderio sessuale del protagonista, così chiamata perché è completamente nuda eccetto che per una scatola di un prodotto della marca di detersivi Dixan sul cranio; c’è lo scontro tra fazioni che vede come protagonisti Danger, l’ex-agente Eva e il maiale antropomorfo Dr. Munoz e come antagonisti una Mummia e la signora Lena interpretata da Chiara Pavoni. Passando per le ossessioni tecnologiche dello Tsukamoto di Tetsuo (1989) e del Cronenberg di Videodrome (1983), si dipana un affresco notevole che passa con fluidità da un’emozione all’altra, con un bianco e nero ravvivato da sprazzi di verde, il colore di cui l’occhio umano vede più sfumature, e ci si immerge in un erotismo sensuale e nel contempo folle, un impenetrabile viaggio nel non-genere del film di genere. E proprio qui, nel primo mediometraggio dei due di Montresor, si possono notare molteplici punti in comune con Duelle, su tutti il rifiuto delle regole del noir attraverso una destrutturazione intima e attenta, atta a far piombare tutto nel mistero, nell’interpretazione, nell’apertura allo spettatore (che completa il film con le proprie competenze e idee) e nell’onirica manifestazione di un blocco nei confronti del reale. Una bomba sul realistico, una sacrale orgia di violente proiezioni mentali e teoriche in un grigio carnevale di figure vignettistiche che si avvolgono l’una attorno all’altra in danze sempre più complesse, manifestando artificialmente liquidi, colori, sensazioni, mentre altrove spuntano corpi, maschere, effetti speciali, macabri colpi di scena, portando a un risultato conclusivo di indubbia originalità.
Il secondo volume, a colori, parlato e più esplicitamente fantascientifico, riprende Chiara Pavoni stavolta in un personaggio sessualmente e moralmente ambiguo, il motociclista criminale punk/lesbo Osso, in tutto e per tutto femminile sin dagli enormi seni sempre in vista con i capezzoli ricoperti da koriniani nastri isolanti, ma considerato da tutti maschile a causa del suo prominente baffone rosso à la Tom Selleck/Ron Jeremy. L’altro personaggio principale è la prosperosa Eveline nel ruolo dell’assistente del Dottor Moreau, scienziato che sta cercando una risoluzione per il problema della crisi della Terra, riassumibile in un’imminente temibile invasione aliena. L’assistente è la vera protagonista del mediometraggio, e il suo personaggio, corpo della “macchina morbida”-cinepresa del suo pelo vaginale (allegoria che torna dopo essere stata nominata più volte nel Vol.1), apre a letture psicanalitiche che possono solo girare attorno alla follia meyeriana di tette, sesso quasi davvero pornografico, corpi plastificati e violentati da trucchi e grafica computerizzata scadente, con bikers invisibili in temibili armate e una recitazione porno-ero(t)iche. Il Vol.2 è denso, trascinato sin dall’incipit da un’ossessione parodistica ed eccessiva sui corpi femminili che ha il suo apice con la trasmutazione finale del film in una lotta tra Eveline e la Morte, dai ritmi videoludici e dall’ultima inquadratura che rompe la quarta parete. È enigmatico in maniera diversa rispetto al Vol.1, perché, invece che strutturarsi come un intricato insieme di immagini da ricomporre, si dipana con una narrazione più lineare ma comunque completamente delirante, che passa con fluidità impressionante dalla commedia alla fantascienza, dal sesso alla violenza, dall’intrattenimento più scatenato e primordiale a un commento analitico sui corpi del cinema e sul loro abuso nello sguardo pornografico maschile, creando magari collegamenti paradossali e ante-litteram con film più intensi come The Canyons (2013) e Tag (2015), ma in una chiave che prende diversamente il termine “produzione”. Il Vol.1 è sicuramente più affascinante e immersivo, ma nonostante questo stacco qualitativo anche la seconda parte di questa folle operazione riesce a coinvolgere lo spettatore nei suoi irrefrenabili deliri immaginifici, imprevedibile e intelligente anche nei momenti più palesemente pacchiani. Come se il Vol.1 caricasse e il Vol.2 sparasse in faccia allo spettatore tutte le sue riflessioni.
Vigasio Sexploitation, in questa misteriosa bipatrizione contenutistica e stilistica, è davvero un film unico, teoricamente adatto sia al pubblico che preferisce immedesimarsi nell’animo kitsch, camp e trash dell’operazione sia a chi invece nel cinema trova quella rivettiana o lynchana curiosità, un’apertura destrutturativa all’interpretazione. Superando le barriere di quest’umorismo grottesco, addentrandosi o anzi penetrando nelle viscere e negli sguardi di questa galleria di follie, onirismi meccanici di immagini, disfacimenti tossici delle pareti del reale/razionale, defunti nella distruzione di una definizione, di una regola.
Nicola Settis