VICTORY DAY (2018), di Sergej Loznitsa
Nel giorno in cui Angela Ricci Lucchi ci lascia, pare quasi eccessivo discutere del ruolo possibile di un’immagine nel guardare alla Storia, lasciando allo stesso tempo un vuoto che sembra presagire il bisogno ancora essenzialmente vivo e dialettico di tutto ciò che l’archivio possa ancora rappresentare. Fatte le debite premesse, e cogliendo qui l’occasione di ringraziare due autori così straordinari e unici come possono esser stati Angela e Yervant Gianikian, parlare dell’ultimo film di Loznitsa ripresenta lo stesso subdolo arcano sull’entità di uno sguardo e su come esso possa influenzare la percezione di una Storia, che essa sia in diretta o sezionata da un passato. Infatti quello che emerge, già nelle prime inquadrature, è una specie di visione sdoppiata su luogo e linguaggio, su osservante e osservato, su chi guarda e noi che guardiamo (talvolta coloro che guardano). Dopo il divenire di Maidan e la stagnazione di Austerlitz, questo Victory Day è una specie di via di mezzo nello scosceso controtempo di una storia che faticosamente guarda a se stessa e in se stessa faticosamente cerca risposte. Ma chi potrebbe porre qualche domanda? Il rapporto tra Storia e memoria probabilmente è percorribile solo attraverso le storie, il personale, coloro che da un’esperienza di memoria diretta (o direttamente assorbita) riabilitano la Storia come momento in cui guardare (e dunque guardarsi) senza l’imbarazzo condizionante della strumentalizzazione che nell’attualità (e dell’attualità) è uno dei mali fondanti. Non c’è prospettiva assoluta, non c’è un punto di vista migliore, non c’è un obiettivo che meglio di altri possa restituire una certa obiettività, c’è solo il mostrare una realtà per forza irreale. E dunque?
Questa volta siamo a Berlino, luogo cardine (per quanto scardinato) di tutto quello scritto qui sopra. Nel famigerato Treptower Park fu eretto uno dei più impressionanti e simbolici monumenti sovietici (e memoriale per i caduti, il Sowjetisches Erhenmal) conseguenti la liberazione della Germania nazista. In quel luogo, ogni nove di maggio (oggi anche Festa dell’Europa), uno sparuto e colorato gruppo di nostalgici celebra l’entrata dell’Armata Rossa nelle mura berlinesi, con canti e balli, deposizioni di fiori ed ingenti bevute. Sono molti dei russi che vivono ora nell’Europa centrale, ma anche molti figli di repubbliche ex-sovietiche che per un ritrovo all’anno si trovano legittimati a ribadire quale fosse la grandezza dell’URSS. Si passa da un mattino di famigliole con cani e qualche ritratto di Stalin e Lenin che fa capolino fino al tramonto con bottiglie di vodka, panini e vecchie tenzoni di battaglia e resistenza (Katjuöa e Kalinka oltre a i vecchi canti del Coro purtroppo ora estinto) mischiate con più che discutibili pezzi celebrativi della “nuova” grande Russia putiniana. C’è di tutto al memoriale, perché in fondo il memoriale è di tutti; dei patrioti di un tempo, di coloro che in guerra hanno perso i propri avi, di chi cerca ancora oggi un riconoscimento, di quelli che indossano un’uniforme di Stalingrado come un costume tipico siberiano. Emotività e retorica si rincorrono e si susseguono, si discute tra la propaganda di un tempo e il nazionalismo dell’oggi, senza argomentare, con l’enfasi del tifoso e la curiosità del turista, tra una fotografia e una lacrima, il tempo di una giornata in uno spazio di oltre settant’anni. Il Dení Pobedy è questo e molto altro, probabilmente impossibile da comprendere fino in fondo per chi non si ritrova in quell’identità, qualcosa che resta quasi vitreo anche davanti all’occhio asettico di una macchina da presa.
Dunque rimane lo sdoppiamento del primo paragrafo. Da una parte il senso della data, quel divenire (im)possibile di un’Europa sempre più minata nel suo farsi, nella possibilità reale (dalla fine della guerra all’oggi) di un momento riconciliante il più condiviso possibile che di essa possa realmente segnarne una radice comune, in un indolenza continua che soffre proprio del fatto di non aver radici possibili comuni (basti pensare nel nostro “piccolo”, alla misera condivisione dei valori costituzionali della Resistenza) e così manifestare una sorta di nostalgia messa in scena nella grande celebrazione di un racconto. Proprio qui nasce la frattura continua tra l’ideale e il senso, tra la memoria e la storia appunto, tra ciò che oggi pare come mera rappresentazione e quello che molti di noi vorrebbero come vera e propria volontà identitaria di equità sociale, accoglienza disinteressata e giustizia nei confronti degli oppressi. Davanti a tutto ciò Loznitsa, e qui arriviamo alla seconda parte del discorso, torna alla proverbiale astrazione frontale e bidimensionale con cui ci ha trasportato prima in Piazza Maidan e poi nel campo di Sachsenhausen. La prospettiva è sempre dedicata a un ulteriore, e solito, sdoppiamento dell’immagine nei confronti di coloro che a Treptower girano, producono e consumano immagini spesso vacue e inconsistenti in un’apparente semplicità che annulla la solennità del luogo e l’importanza stessa della ricorrenza. Quello sguardo che sembra così naturale, neutrale e se vogliamo normale, che pare sempre nascondere un appiattimento continuo del soggetto sulla massa, uno schiacciamento inevitabile della persona nei confronti dello spazio e dunque di un’alterità che distorce l’umanità di tutti coloro che compongono, con la propria esperienza, quei momenti e quella giornata, come un problema continuo tra l’osservare e il mostrare. Il film si apre e si chiude con i potentissimi bassorilievi narrativi, con le geometrie del memoriale e la statua di Vuchetich, ovvero con ciò che costantemente abita la spazio, con gli elementi che gli rendono un’identità possibile al di là dei tempi, come per dire che ciò che appare immobile – la Storia – non subisce la provvisorietà dell’essere mobile e quindi fallibile – la memoria. Rimane il senso pulsante di una vitalità pura e dettata da percorsi umani estremamente differenti, che si intersecano al cospetto di un ricordo il più possibile comune e necessario, di un rispetto che vada oltre al concetto di nostalgia come al momento di celebrazione; ma su tutto ciò dovremmo porci ancora una domanda. Che senso (e anche utilità, se questi tempi ci portano forzatamente a parlare di urgenza) ha vedere tutto ciò in questo modo? O meglio, il problema è legato a ciò che vediamo o a come lo vediamo? Probabilmente è lo stesso Loznitsa a chiedersi questo, e dunque a chiederlo anche noi, perché una risposta sarebbe solo atto di presunzione. Forse questo è proprio il punto di partenza, non di arrivo.
Erik Negro