V/H/S 2 (2013), di Jason Eisener, Gareth Evans, Timo Tjahjanto, Eduardo Sánchez e Gregg Hale

V/H/S 2 di AA.VV.
ovvero: come reinventare un genere apparentemente stupido e amare lo zombie

Se è vero che Ruggero Deodato, con Cannibal Holocaust, ha sostanzialmente inventato il found footage, portato poi avanti, si credeva, in tutte le modalità e varianti possibili (dalle videocamere di Blair Witch Project al puntino rosso di Rec, passando per Diary of the Dead di Romero, svariate incursioni, riuscite o meno, nelle webcam, e l’inspiegabile successo di Paranormal Activity), è innegabile che V/H/S (2012) ed ancor più V/H/S 2 (2013) abbiano letteralmente scardinato questo genere, portandolo ad esaltazioni al limite dell’impossibile, scommettendo forte e quasi sempre vincendo il banco.

La struttura dei lungometraggi è quasi mozartiana, nella sua semplicità ed efficacia: due o più persone si ritrovano, siano essi piccoli delinquenti o investigatori privati, armate di videocamere a infrarossi, in una casa apparentemente vuota, rigorosamente buia e scricchiolante, di fronte ad una sterminata collezione di videocassette. Come da migliore orrorifica tradizione, decidono di visionarne il contenuto. Qui non ci sono discutibili pozzi, anelli e parodizzabilissime (parodizzatissime) bambine coi capelli davanti alla faccia che escono dallo schermo, ma una serie di corti di diversi registi, dissimulati a tal punto da sembrare realmente ‘non fiction’, raccordati dagli inesorabili eventi nella casa -cadaveri, vecchi videoregistratori, zombie, gracchianti tv a tubo catodico e fantasmi- a firma Adam Wingard e Simon Barrett.
Mentre nel primo film gli episodi “in VHS” erano stati affidati a Ti West, Joe Swanberg, David Buckner, Glenn McQuaid ed il collettivo Radio Silence Productions, capaci di uccidere su Skype, usare come videocamera un orsetto o nasconderla negli occhiali di chi vuole girare un hidden-porn ma sbaglia decisamente donna con la quale farlo, sono ora Jason Eisener, Gareth Evans, Timo Tjahjanto, Eduardo Sánchez e Gregg Hale registi, oltre a Wingard e Barrett, di questo secondo e ancor più interessante film della serie.

V/H/S 2, si diceva, reinventa il found footage. Nello scorrere impetuoso dei quattro episodi, i diversi registi hanno voluto e saputo osare, dal mockumentary con troupe, non particolarmente originale ma sempre efficace nel narrare follie collettive (proto)religiose, fino agli esperimenti visivi più impensabili, come la macchina da presa su un cane, o nell’occhio (bionico, ma pur sempre in un occhio) del protagonista, capace di captare e rendere visibile ogni tipo di presenza soprannaturale.

Ma è sull’episodio di Eduardo Sánchez e Gregg Hale, A ride in the park, che vorremmo soffermarci con maggiore dovizia di particolari. Girato solo con due Go-Pro (salvo un minuscolo inserto in miniDV), la prima installata sulla bicicletta dello sventurato protagonista, l’altra sul suo casco, permette allo spettatore di vedere, per la prima volta, la soggettiva della morte di un uomo attaccato da uno zombie, seguita dalla sua trasformazione ed atavica caccia ad altri uomini, con una scissione del cortometraggio in due parti ben distinte, ed il passaggio da vittima a carnefice, dimostrando quanto possa essere labile il confine fra le due categorie. Carnefice al punto di scatenare un orrido banchetto a chiusura di una festa di famiglia, dove tutti mangiano tutti, in un’escalation di sangue e morte. E, nel frattempo, di nuovo e sempre più vittima, di se stesso e dei sensi di colpa, perchè sotto sotto, vedendosi riflesso con una forchetta che esce da un occhio, c’è ancora un barlume dell’uomo. Fino allo splendido finale, la chiamata partita per sbaglio, il ricordo nitido di una vita precedente e di una fidanzata amata, realizzare cosa è successo, la trasformazione, il male fatto, l’amore ormai perduto. Epicuro, Schopenhauer, Nietzche: lo sparo in testa, il casco che, volando, inizia a girare, ed atterra in posizione perfetta per inquadrare la seconda e definitiva morte del protagonista, un giovane Werther dalla testa spappolata dove il trapasso è liberazione, dove delitto e castigo si sovrappongono, il suicidio è l’unica salvezza e rimane solo una Go-Pro a testimonianza di ciò che fu. L’uomo muore, lo zombie anche, il cinema no.

Perchè il cinema non muore, mai, ed ecco la scelta non certo casuale del formato nel quale presentarlo al pubblico: in un mondo dove la digitalizzazione selvaggia sta eliminando le pellicole in virtù di un freddo, ma nettamente più economico, hard disc contenente il DCP, questo film, girato invece quasi interamente ed obbligatoriamente in digitale, è stato stampato e proiettato in 35mm. Questa si chiama cinefilia. Antieconomica, ragionata, appassionata.

Marco Romagna