VESTITO PER UCCIDERE (1980), di Brian De Palma
Che per affrontare il cinema di Brian De Palma si debba necessariamente passare attraverso quello di Alfred Hitchcock è un postulato ben noto e forse fin troppo spesso sbandierato, ma impossibile da ignorare. Specialmente quando ci si trova davanti a Dressed to Kill (1980), uscito al tempo in Italia con la traduzione letterale Vestito per uccidere, che lo stesso De Palma ha concepito come un esplicito e dichiarato omaggio al celeberrimo Psycho (1960). Dal classico di Hitchcock, De Palma riprende sia la struttura narrativa sia gran parte dell’immaginario: abbiamo qui la storia di Kate, una donna sposata che, sessualmente insoddisfatta dal marito, si lascia sedurre e portare a casa da un uomo incontrato in un museo; tuttavia, mentre è in procinto di lasciare il suo condominio, viene brutalmente assassinata in ascensore da quella che parrebbe essere un’altra donna. In una svolta narrativa analoga a quella epocale che compì Hitchcock uccidendo la diva Janet Leigh a meno di metà del suo film, da questo punto in poi ad assumere ruolo di protagonista sarà Liz, una giovane prostituta che si ritrova per caso sulla scena del delitto. E che, ecco il De Palma di punti di vista frammentati e doppiezze, di rifrazioni e di ambiguità, vedrà l’assassino riflesso nello specchio dell’ascensore. Un dettaglio apparentemente “solo” funzionale, ma che, se inserito nel cinema di De Palma, nelle sue aspirazioni, nei suoi riferimenti e nelle sue simbologie, si rivela molto più importante e denso di contenuti teorici di quanto possa sembrare. Se da un lato infatti questa sorta di rielaborazione del finale di Profondo Rosso si pone come perfetto innesco dell’evoluzione dell’intreccio, con Liz che si ritrova a essere al contempo la prima sospettata dell’omicidio e la nuova preda del vero colpevole costretta a indagare in prima persona per potersi scagionare e salvare la vita, dall’altra non è di certo un caso che sia proprio uno specchio, quindi un altro punto di vista, un altro (ingannevole) schermo, l’unico modo per poter intravvedere una verità che a sua volta sarà destinata a essere ribaltata, rivelandosi l’ennesimo inganno. Contando sul prezioso aiuto di Peter, il figlio adolescente della vittima, Liz si inoltra in un tunnel incubale di doppiezze e follia, di apparenze e di dissociazioni mentali, di sesso e di sangue, di travestimenti e di identità, di psichiatri e di personalità multiple, in cui la differenziazione dei punti di vista è al contempo la domanda e la soluzione dell’enigma, la messa in scena e il vero e proprio “argomento” del film.
Proprio come la scena stessa dell’assassinio fu girata da Hitchcock portando sullo schermo una violenza per allora inaudita, De Palma, a distanza di vent’anni, cerca di infrangere ancora più tabù, facendo virare il film verso tinte profondamente cruente ed erotiche. Sequenze guidate da giochi di sguardi desiderosi e pulsioni sessuali irrefrenabili, come la straordinaria sezione ambientata nel museo, si susseguono a inseguimenti dominati dall’ombra incombente dell’assassino e da apici assoluti di pura violenza. Fra le scene più indimenticabili spicca sicuramente quella dell’omicidio nell’ascensore: è un’esplosione di tensione fatta di violenti tagli sia di montaggio che di pelle, riflessi abbaglianti di un rasoio affilato che si scontrano sugli occhi dello spettatore con fiotti di sangue scarlatto. I temi della psicanalisi e del subconscio sono l’asse portante del film: la figura dell’assassino – psichiatra dalla doppia anima – è una reinvenzione di quello di Psycho, una persona dalla sessualità disturbata, che risponde all’eccitazione con l’omicidio in quanto incapace di risolvere il suo lacerante conflitto interno; da questo, come dalle discussioni sul sesso messe in bocca ai personaggi o trasmesse alla televisione, traspare il ritratto di un’America ancora in una fase di transizione in merito al trattare la sessualità. E, a distanza di quasi 40 anni, rileggere le (insensate) controversie che il film, preso di mira sia dalle associazioni femministe sia dalle comunità omosessuali, suscitò alla sua uscita, possono in un certo senso essere un esempio ancora più esemplare di quanto De Palma avesse ragione. Non c’è nulla di misogino, in Dressed to kill, né tanto meno di omofobo. Certo, un transessuale è l’assassino di una donna, questo lo si sa da subito, e il congegno narrativo del film verte sulla necessità di smascherarne la reale identità, ma il punto di De Palma non è certo la moralizzazione dei suoi personaggi, il punto è riflettere sulle possibili declinazioni del tema del doppio (anche sessuale), e più in generale sulle infinite potenzialità del mezzo cinema: il cambio di sesso (e/o di personalità) è uno specchio, un doppio punto di vista, uno split-screen. In una parola, è il cinema di Brian De Palma, sono le sue tematiche ricorrenti, sono le sue ossessioni di vita e di messa in scena, sono le sue immagini, da sempre alfa e omega, argomento di ricerca e mezzo con cui mettersi in esplorazione del mezzo, dell’uomo e del suo subconscio. Tanto che quando in Passion (2012) riprenderà, fra gli altri, diversi momenti e inquadrature di Vestito per uccidere con tanto di parrucca e maschera con cui (ri)creare una gemella e con tanto di corridoi e di assassini che appaiono alle spalle, lo specchio nel quale vedere l’omicidio sarà sostituito dalla possibilità di rivederlo attraverso l’occhio meccanico di una videocamera, ulteriore doppio e frammentazione, ulteriore immagine (cinematografica) come ricatto, ulteriore occhio che uccide fino a rimanere ucciso.
Dressed to Kill è perfettamente incorniciato da due sequenze oniriche quasi speculari, entrambe ambientate in una doccia come altro esplicito rimando hitchcockiano. La prima è un sogno erotico proibito dalla nudità scandalosa, e la seconda è un inquietante incubo figlio di un trauma appena nato, che colloca con ancor più forza il film sul territorio del subconscio. Per quanto riguarda la seconda, anzi, dice la leggenda che inizialmente non fosse prevista la sua natura onirica, ma che secondo lo script originale il dottor Elliott/Bobbi, una volta fuggito dal manicomio criminale, avrebbe trovato la sua vendetta. Solo successivamente De Palma avrebbe deciso di trasformare questa vendetta in incubo, trovando un modo ancor più efficace per lavorare sull’atmosfera di inquietudine che la doppiezza psichiatrica non può che suscitare. Non sappiamo se questa leggenda sia vera o se faccia semplicemente parte delle mille curiosità che inevitabilmente nascono intorno a un film di culto, e in realtà non ci importa nemmeno più di tanto: non è infatti la genesi a modificare ciò che Vestito per uccidere dice sul cinema e sull’immagine, né a modificarne il tono narrativo, le acute riflessioni o la perfetta messa in scena. Il finale è onirico, lo è sempre stato, ed è giusto che lo sia come perfetta conclusione di un discorso non verbale, ma che non può che emergere dall’intreccio, dagli specchi, dai doppi (dei doppi, dei doppi) che costantemente entrano in Dressed to kill e in generale nel cinema di Brian De Palma. Non manca nessuno degli elementi fondamentali del tipico grande thriller del regista: la gestione magistrale della tensione si innesta su un’impalcatura visiva fatta di riflessi di finestre e specchi, di split-screen (come sempre fortemente teorici) che legano i personaggi ai loro pensieri, di sinuosi carrelli che li conducono verso i loro oggetti di desiderio, il tutto condito da uno stile folle ma impeccabile, che certamente prende molto da Hitchcock, ma che al contempo lo supera adottando soluzioni ancor più virtuosistiche ed estreme. Della carriera di questo maestro americano continua a stupire tutt’oggi come una serie di progetti animati da una forte ambizione, forse addirittura fraintendibile come tracotanza nei confronti dei classici, siano stati realizzati con un’esecuzione impeccabile, con una tecnica tanto innovativa nelle sue sperimentazione da diventare successivamente scuola, purtroppo anche per vacue imitazioni. Ed è grazie al Torino Film Festival che è stato possibile far rivivere nel buio della sala, in quel limbo tra spettacolo privato ed esperienza collettiva, questi capolavori che fanno appello ai nostri bisogni ed istinti più reconditi, con livelli di lettura quasi infiniti e con la sofisticatezza sopraffina di uno dei maggiori e più intelligenti registi della storia del cinema. E pensare che c’è chi li liquida come semplici “thriller”…
Tommaso Martelli, Marco Romagna