VERTIGO – LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE (1958), di Alfred Hitchcock

Nel corso delle retrospettive dei Festival, in particolar modo allo specifico Cinema Ritrovato della Cineteca di Bologna, sono possibili visioni di diverso tipo. In primo luogo si possono (ri)scoprire film dimenticati, mai visti e solo recentemente rinvenuti in qualche magazzino o armadio, oppure film stranieri mai usciti dagli esotici Paesi di produzione. Parallelamente, vengono sempre più spesso presentati restauri (quasi sempre digitali) eseguiti di recente, o, quando disponibili, versioni alternative di lungometraggi già presenti nella memoria dei cinefili. Ma c’è anche un’ulteriore via, che è forse la più pura idea di retrospettiva: il rispetto assoluto del medium con la proiezione di un 35mm originale, non restaurato, comprensivo dei suoi segni del tempo, delle sue piccole imperfezioni, di qualche righetta verticale, dei suoi salti di qualche fotogramma a causa di precedenti rotture e giunte. Proiezioni alle quali, specie per i film già amati, si suole entrare quasi a prescindere. A questo proposito sabato 4 sera, in chiusura di Festival, è prevista la proiezione in Piazza Maggiore di una rarissima copia nel glorioso formato 70mm di 2001 A Space Odissey. Sempre a questo proposito, è stata proiettata ieri pomeriggio la preziosa copia di Vertigo in possesso della Cinématèque Francaise, convertita in 35mm nel 1966 con mezzi rigorosamente analogici dal VistaVision (sistema a scorrimento orizzontale entrato ben presto in disuso) con il quale il film era stato girato. Una copia non perfetta, è vero, ma di una luminosità e profondità nei colori che nessun restauro, tantomeno in digitale, saprà mai restituire. La sensazione in sala, per quanto possa sembrare strano, è quella di assistere ad un altro film, nuovo, più bello: lo è. L’unico modo per vedere davvero il film immaginato e fotografato dall’Autore.

Fra gli assoluti capolavori del maestro Alfred Hitchcock, interpretato dal fedele Jimmy Stewart con l’enigmatica Kim Novak, Vertigo non ha certo bisogno di presentazioni: fulminante sin dai titoli di testa firmati Saul Bass, si apre con l’inseguimento sui tetti di San Francisco che determinerà lo shock di Scottie e le sue vertigini. La bella Madeleine, l’oscura maledizione dalla quale sembra essere affetta, il marito Elster, lo spettro della bisnonna suicida dietro ai suoi disturbi, il quadro appeso al museo con quel ciondolo al collo, il bagno fuori programma nella baia di San Francisco. Fino alla missione spagnola, il tragico “Avrei voluto continuare ad amarti” prima della corsa su per le scale, la torre e Madeleine che precipita. Hitchcock, come d’abitudine, cura ogni minimo dettaglio con passione maniacale, inventando una geniale soggettiva per rendere sullo schermo le vertigini di Scottie, costituita dall’ormai celeberrima carrellata in avanti contrapposta ad un contemporaneo zoom all’indietro. Come con la lampadina nel bicchiere di latte di Suspicious, come con la tazza gigante di Notorious, il geniale regista trova lo stratagemma tecnico in grado di ipnotizzare lo spettatore, catturarne l’attenzione, scrivendo un’ulteriore pagina di Storia del Cinema.

Magnetico e a tratti lisergico, Vertigo parte dalle collaudate forme del thriller per giungere, specialmente nella seconda parte, ad una fra le più complesse letture del tema del doppio mai affrontate. Il susseguirsi di spirali (nei titoli di testa, nell’incubo di Scottie che cita Duchamp, nello chignon di Madeleine, nella rutilante sequenza del bacio alla missione, nella circolarità della vicenda) accompagna un film di specchi, di fantasmi e di doppie identità. Ma riflette anche sull’idea di simulacro, portando il discorso ad una compiutezza tale da ispirare buona parte dell'(illuminante) saggio L’Effetto Pigmalione (Il Saggiatore, 2008) dello storico dell’Arte Victor Stoichita. Scottie, distrutto dal rimorso e dal dolore per l’amore perso a causa delle proprie vertigini, crea, appunto con la cura di un moderno Pigmalione, la ‘sua’ Madeleine sulla ‘seconda vita’ Judy. Ricrea quindi un’immagine, un idolo da adorare, non sapendo in realtà che la donna della quale si era innamorato era già un simulacro, ‘creata’ in precedenza da Elster in un acuto piano per uccidere la moglie. Estendendo, come ha fatto Stoichita prima e meglio di noi, il discorso al Cinema, si evince come il Pigmalione Hitchcock “presti” il suo ruolo di creatore a due attori-simulacri per plasmare, ben due volte, un ulteriore simulacro: nasce concettualmente un cortocircuito, una nuova spirale, anche qui, per la quale Hitchcock crea immagini nelle quali il simulacro-James Stewart interpreta Scottie-creatore e Kim Novak interpreta Judy che interpreta Madeleine.

Ma sarebbe riduttivo parlare solo degli aspetti contenutistici e tecnici di questo capolavoro, dimenticando la caratteristica forse più importante di Alfred Hithcock e dei suoi ‘classici del brivido’: la capacità ed il piacere di saper raccontare una storia, di intrattenere, di divertire e, perché no, inquietare. Una dimensione autoriale quanto ludica del Cinema, non considerata o quasi dalla critica fino al decisivo intervento di Truffaut per poi essere riscoperta solo successivamente, quando evidentemente i tempi si erano rivelati maturi. Vertigo è ancora oggi un film di una modernità straordinaria, perfetto nel ritmo e nella messa in scena, abbacinante nelle trovate registiche, ubriacante nello svolgersi dell’intreccio, meravigliosamente restituito dai rulli di questa splendida copia, squisitamente fantasmatica nel technicolor della ‘resurrezione’ in verde di Madeleine e di una potenza smagliante nel rosso vermiglio del ristorante. Un film in grado di mescolare lo humour di matrice tipicamente britannica del regista con il dolore atavico del più brutto fra gli addii. Rimangono gli occhi lucidi dell’incredulo Scottie, la campana che suona, e la preghiera tardiva di un’inquietante suorina.

Marco Romagna