Pedro Cabeleira, regista venticinquenne portoghese, con Verão Danado, film in concorso Cineasti del Presente alla settantesima edizione del Locarno Festival, ha composto un inaspettato e forse insospettabile canto del cigno generazionale senza troppe punte di moralismo. Si segue il protagonista Chico attraverso una serie di giornate, forse sconnesse e forse no, con come principali centri focali tre feste: una in una piccola casa, una in una casa più grande che si trasforma in discoteca e una in una discoteca a tutti gli effetti, all’aperto. Nella sceneggiatura tuttavia non c’è una struttura in tre atti definita con eventi scatenanti e punti di volta, nonostante questa definita tripartizione degli eventi, e si procede quasi come in un flusso di coscienza di Chico, un protagonista che non è un eroe affascinante bensì un semplice studente universitario in cerca di lavoro con tutti i problemi del caso, tra la famiglia che rimane in sottofondo, il migliore amico Telmo, una serie di fiamme con cui ha rapporti altalenanti e un rapporto spesso poco moderato con le sostanze stupefacenti. Come resoconto della fase post-adolescenziale della vita, Verão Danado ha il grande pregio di mostrare tutto con un realismo invidiabilissimo e forse impossibile da riscontrare nella maggior parte della produzione cinematografica contemporanea, che tendenzialmente dà interessanti chiavi di lettura a simili discorsi utilizzando o una completa astrazione della realtà (v. Spring Breakers, 2012, di Harmony Korine) oppure spostando tutto in un contesto dall’approccio umoristico e grottesco (v. i migliori film della coppia Rogen-Goldberg, e i relativi protagonisti bambinoni che non riescono a crescere). Cabeleira invece, pur con le doverose parentesi più poetiche, ha costruito una non-storia straziante dal sapore decisamente realistico, a partire dalle movenze dei personaggi, un cast di giovanissimi assolutamente straordinari e credibili, e dai loro discorsi, in una sceneggiatura, estremamente interessante nella complessità del cambio continuo di registro, che mischia il sentimentale con il girare a vuoto della dialettica senza essere auto-referenziale: perché può essere esattamente così, il discorso e il suo svilupparsi nel mondo psichedelico della generazione che è protagonista del film. Cabeleira insomma sembra non tanto raccontare quanto raccontarsi, e anche nel mostrare piccolezze che in altri contesti potrebbero apparire dei giudizi nei confronti dei personaggi (tipo i selfie o un ragazzo che, dopo una dose di MDMA eccessiva, rimane appollaiato sul davanzale di una finestra) ci si ritrova con l’impressione di uno sguardo più immediato, meno critico, più legato semplicemente alla realtà dei fatti – e, quando la realtà si allontana, viene sostituita da una sua resa irreale, in cui in mezzo al più scatenato dei balli la musica può interrompersi, per lasciare spazio a un’immedesimazione totale, disperata.
Lisbona fa da sottofondo periferico alla storia, ambientata principalmente in spazi interni. La capitale del Portogallo diventa insomma punto focale di un mondo esterno spietato anche in quanto impenetrabile, dando la possibilità di un’apertura verso un altro reale che rimane in sottofondo, svanisce, si sfuma quasi tra giochi di focalizzazione e strade deserte, in cui il cinema non sembra arrivare, con la propria prepotenza figlia dell’eleganza di De Oliveira che non può che tramutarsi nel più impercettibile e lontano dei fantasmi. La poesia che traspare attraverso il film è una poesia in scia “beat”, quella di Burroughs e Ginsberg, una poesia romantica e distruttiva, non necessariamente con quel nichilismo che spesso viene legato in maniera accusatoria e triste a tale movimento poetico dimenticandone la creatività – ed è proprio questo che traspare, nel momento in cui la musica si interrompe, o si ferma il ritmo per lasciare spazio al rallentatore. Ci sono neon e luci soffuse, donne che girano intorno agli uomini e viceversa, con le parole che perdono importanza e tutto si cristallizza nel momento specifico e nell’idea di quello stesso momento, un momento che rimane impresso nonostante possa essere insignificante, una memoria diluita nel tempo, un onirismo che scompare attraverso il reale. Verão Danado, che vuol dire “Dannata Estate”, annaspa nella tristezza del caldo, la “summertime sadness”, e la espande cercando di esprimere quello che ci può essere oltre, qualsiasi cosa esso sia: rimane indefinito, perché non viene mostrato l’assoluto ma solo evocato attraverso le sensazioni, gli occhi, i sorrisi, le luci. E soprattutto forse i corpi, corpi sessuali, pronti a tramutare qualsiasi situazione in un’improvvisa orgia, in cui l’elettronica si mischia alla musica classica, il ballo sfrenato ed erotico diventa una danza suadente, elegante. La sessualità diventa sempre più fluida e liberale, sempre più anarchica e semplice, con le spinte autolesionistiche in una continua metamorfosi discendente. Parte come un’esplosione orgasmica e lisergica, che Cabeleira sfrutta per analizzare i processi rituali della nascita dell’amicizia, della relazione sentimentale e di quella sessuale, cercando più che altro di comprendere, attraverso le luci e la musica roboante che spesso rivelano e altrettanto spesso nascondono i pezzi dei corpi e delle conversazioni, la ritualità e i ritmi dell’apparente vuoto che si può e si deve aprire. La droga, sia essa leggera o pesante, diventa leitmotiv che ferma il tempo e lo blocca negli istanti che divengono infiniti, dilatandosi in deliri che alternano il realismo all’astrattismo, la concretezza anche goliardica delle conversazioni all’assurdo. E Chico si interroga su quanto le immagini che lo circondano siano reali, su quanto importano nel ruolo generale della sua esistenza, su come certi individui nella sua mente esistano solo come immagini e non come individui: è una superficialità che nessuno vuole, ma che ognuno subisce nella propria personale esperienza.
Nel finale, che è il climax ascendente e violento che segue a una festa tesissima in cui scorrono in egual misura cocaina e gelosia, Chico scappa dall’inquadratura e dalla macchina da presa – a ritmo di techno, e con una poesia che cita generi musicali parlando di un “vaso vuoto dei sogni”. Già fuggito prima dalla famiglia e poi dalla casa, si rifugia in rapporti estemporanei ed effimeri, cerca l’amore e lo trova ma con esso trova anche il rifiuto, come in una notte che è un’unità di tempo che sfiora l’assenza del tempo stesso; l’eccentrica e psicolabile Maria lo scaccia, Tanya lo tradisce, gli amori e le amicizie scorrono come in una sfilata in cui ci si può fidare di tutti e di nessuno. Chico ha dunque la necessità di sparire. Rifuggire dallo spaventoso sguardo della macchina da presa che lo insegue, e che potrebbe criticarlo, anche se tendenzialmente non lo fa. È come se fosse una fuga da un orrore invisibile (implicato nell’oggetto stesso della macchina da presa, nella tecnologia) come l’inseguimento della crudele telecamera in It Follows (2014) di David Robert Mitchell, o addirittura una vera e propria sparizione dell’Io attraverso il mezzo fallace del cinema e della finzione: l’individuo è destinato a estinguersi per sopravvivere e tornare individuo, in questa dolce poesia sul quotidiano e sulla sua interruzione, sul futuro che scompare di fronte al vizio e sullo straniamento costante in un mondo, sia esso interno o esterno, che non comprende – e qua, invece, ci riviene in mente il faro conclusivo di A spell to ward off the darkness (2013) di Ben Rivers e Ben Russell, che fa scomparire l’etnografia e la trascendenza riportando tutto a un livello di pura inesistenza. Se Chico deve vivere, come personaggio cinematografico, la sua vita non deve concludersi, nulla deve confondersi né aprire finestre verso ciò che può succedere o è destinato a succedere. Il presente è questa confusione, con tutto il suo alienante spaesamento, in un ritratto senza peli sulla lingua che commuove e strappa il cuore per la bellezza della sua semplicità.
Nicola Settis