Tornerà in ogni caso, Agnès Varda. Proprio come, travolta dalla stessa nebbia e dalla stessa tempesta di sabbia che chiudono il nuovo e magnifico Varda par Agnès, presentato fuori concorso alla Berlinale 2019, era tornata per presentarsi sotto casa di Godard nel precedente Visages villages. Tornerà in ogni caso, Agnès Varda, anche se Varda per Agnès, ennesimo inestimabile lascito mai così smaccatamente testamentario che ripercorre tutto il suo cinema con la sorprendente lucidità dei suoi 90 anni, dovesse essere il suo ultimo film. Tornerà in ogni caso, Agnès Varda, perché il cinema è un qualcosa di sempre vivo e pulsante, in costante movimento, in costante evoluzione, in costante rilettura, come un’idea, come uno spunto, come una costante ricerca di nuove forme espressive. Anche, e forse soprattutto, nella sua morte. Perché se il Novecento è stato il secolo del cinema, il Duemila iperdigitalizzato non lo è, non lo può più essere. Con lo spartiacque costituito dal flop di Les Cent et Une Nuits de Simon Cinéma (1995), folleggiante e commosso film evocativo con cast all-star realizzato in occasione del centenario della settima arte per celebrarne la memoria, dopo il quale la Varda non ha mai più girato in pellicola, né messo in scena finzione. Ma il (suo) cinema, superato il trapasso dell’emulsione e diventato «numerique», digitale, è andato avanti. Come un treno nella notte, per dirla con Truffaut, o forse più semplicemente come un eterno ritorno a un ancora più eterno inizio, fatto dei tre movimenti, ispirazione, creazione e condivisione, su cui da sempre si fonda, e fatto di quella provvisorietà di un discorso mai chiuso, ma sempre riaffrontato, ripensato, stravolto. Tanto che i titoli di coda appaiono in testa, in Varda par Agnès, e la fine su cui chiudere le tende e riaccendere le luci è una semplice, poeticissima e straziante dissolvenza verso il bianco, verso quel fulgore sempre nuovo che, fuoriuscendo da un proiettore, inonda della sua magia uno schermo teso da qualche parte nel mondo. Con immagini vecchie oppure nuove, con elementi di finzione o elementi documentaristici, con il buio della sala o con le installazioni videoartistiche come un’illusione di una tridimensionalità (im)possibile, con gli altri schermi che mostrano ciò che è sempre stato oltre le pareti del quadro principale o con intere case fatte di memoria, costruite con scatole di bobine e fasciate di strisce in 35mm attraverso cui far filtrare ancora una volta, e in maniera ancora differente, la luce. Come in un arrivederci senza nemmeno la possibilità di addio.
Del resto, quando ci sono la profondità e la lucidità delle riflessioni, basta una sedia su un palcoscenico per fare grande, grandissimo cinema. Bastano un paio di macchine da presa piazzate di fronte e di spalle, basta un carrello che vaga per i campi, basta una spiaggia, basta un ricordo, basta una presenza, basta un momento. La condizione è solo una: che ci sia un pubblico con cui condividere l’atto. Un pubblico disposto ad ascoltare, a guardare, a interessarsi, a identificarsi, a capire, a perdersi e a ritrovarsi. Un pubblico disposto a riflettere e a riconoscersi, e magari a stimolare con la sua umanità una nuova ispirazione da cui nuovamente creare e condividere, ricominciando ancora una volta a percorrere la strada che porta verso il prossimo ritorno. Di Agnès Varda, ma anche di se stesso e di ognuno di noi, perché senza pubblico – la condivisione – il cinema non sarebbe mai potuto esistere. Inizia così Varda par Agnès, con il palco di un teatro/cinema sul quale la regista belga sta per tenere la sua prossima masterclass, con uomini e donne che, velocizzati, prendono posto sulle poltrone, e poi con lei, la novantenne Agnès, il suo inconfondibile ed estroso caschetto bi-colore, la sua voce calda, la sua sconfinata simpatia, la sua memoria, la sua tenerezza, le sue riflessioni teoriche e umane, il suo cinema. Un cinema che ha sempre guardato gli altri, il mondo, la realtà, gli uomini e le donne, incapsulando e affiancando lo spazio, il tempo e lo sguardo. Un cinema in cui, come la stessa Varda spiega ripercorrendo la presa di coscienza di Corinne Marchand in Cléo de 5 à 7 e l’amaro vagare verso la preannunciata morte della vagabonda Sandrine Bonnaire in Senza tetto né legge, ogni movimento di macchina è una ben precisa presa di coscienza etica, per molti versi rosselliniana, con cui passare dall’oggettivo al soggettivo e ritorno, con cui trasformare la verità in illusione, e con cui apertamente dichiarare il dispositivo – come al momento dell’incontro fra una giovane Agnès Varda e quell’altro Varda, barbuto, che faceva il pittore in California – fra ripetizioni, ciak in campo e stravolgimenti del punto di vista. Del resto il cinema, che sia destinato a un successo o a un fiasco, è prima di tutto guardare il mondo, è scandagliarne le profondità e le sfaccettature amandolo e vivendolo, e in questa ricerca è sempre il senso a dover essere il filo conduttore, la visione e la sua realizzazione, l’intuizione e il suo effetto, e mai la mera cronologia, crimine contro l’associazione di idee e la sostanza di un pensiero.
Come del resto rifiuta l’ordine cronologico Varda par Agnès, in cui la regista fa coincidere momenti differenti girati nel corso degli ultimi anni fra lezioni di cinema a ruota libera e q&a moderati dagli intervistatori mentre, tornando all’archivio, salta apertamente da una fase all’altra della sua carriera. Dalla Nouvelle Vague alla (video)installazione, da un film all’altro, da un palcoscenico all’altro, passando per un carrello sul quale è montata una cinepresa cartonata come simulacro di una passione sepolta in un secolo ormai passato eppure inarrestabile, a prescindere da quali siano il formato di realizzazione, il linguaggio utilizzato e la modalità di espressione. Tornano i film di finzione e i documentari, tornano le fotografie e torna la loro commistione con il movimento, torna Black Panters, torna La pointe courte, torna Les glaneurs et la glaneuse che fu la prima incursione “numerica” dopo la lunga fase «analogica», torna Mur murs con i suoi murales e torna Les plages d’Agnès con tutte quelle distese di sabbia che hanno formato una vita e una carriera nel loro infinito incrocio di battigia, mare e cielo. Torna Jacques Demi indimenticabile amore di una vita, torna la Ciné-Tamaris che cinque anni prima di “papà” A bout de souffle di Godard fu madre o forse nonna della Nouvelle Vague, torna Jane Birkin nei ruoli dei più famosi quadri mentre la stessa Varda si autorappresentata come parte (o forse consapevole intrusa) nell’arte e negli specchi altrui, e ovviamente torna JR con la sua macchina (fotografica) su gomma e con le sue enormi opere di carta, atto artistico destinato a trasformare gli esseri umani in gigantografia in cui poco importa se la provvisorietà dell’arte cancellerà per sempre le sue opere alla prima alta marea, perché l’unica cosa che conta è la purezza del gesto, del simbolo, del segno. In un avanti e indietro negli anni che annulla il tempo, lo ferma, lo fa ripartire, lo accompagna nel suo scorrere fra campi e controcampi distanti decenni e invece sempre presenti nella magia del cinema, nella sua illusione a 24 fotogrammi al secondo – forse ancora di più negli schermi affiancati e ripetuti, o forse molti meno nelle (mai) statiche pareti dei The cinema Shacks. Sandrine Bonnaire indossa ancora lo zainetto di un tempo, Robert De Niro con barba incolta e capelli lunghi parla in francese e Agnès Varda ha contemporaneamente 27 e 90 anni, e da oltre 60 non ha mai smesso di stupire, di stravolgere, di abbagliare. Quello che emerge da Varda par Agnès, molto al di là degli aneddoti, è una visione artistica e di vita, è un mondo immaginifico rivoluzionario e ancora adesso in costante evoluzione, che ha preso per mano il cinema – quello di ieri e quello di oggi – e l’ha cambiato per sempre, rendendolo una creatura sempre palpitante fra sussurri e sguardi, fra simboli e intuizioni, fra disvelamenti e sogni. Fino al prossimo ritorno. Perché Agnès Varda, che abbia firmato una riflessione o un testamento, tornerà in ogni caso. Come sempre, e per sempre.
Marco Romagna