VA’ E VEDI (1985), di Elem Klimov
Possiamo penetrare in un tentativo di comprensione del cinema bellico come categoria filmica di per sé dopo la visione di qualsiasi oggetto autoriale universalmente consacrato all’interno del genere: Orizzonti di gloria, Full Metal Jacket, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Il cacciatore, La sottile linea rossa, Patton, La grande guerra, La grande fuga, Tora! Tora! Tora!, Dove osano le aquile, M*A*S*H*, L’alba della libertà, la dicotomia di Eastwood composta da Flags of our fathers e Letters from Iwo Jima, e poi volendo pure La battaglia di Algeri, Una tomba per le lucciole da una parte e Porco Rosso e Si alza il vento dall’altra, Furyo, l’incipit di Salvate il soldato Ryan, Bastardi Senza Gloria, alcuni tra i film storici di Kurosawa (su tutti Kagemusha) e più recentemente Dunkirk. Ma ci sono forse tre capolavori assoluti del genere da elevare sopra gli altri, riuscendo magari per capacità emotiva a sovrastare, forse, tanto Kubrick quanto Cimino: uno è Apocalypse Now di Coppola, per la volontà caravaggesca di mettere in moto il delirio e, come ci dice Kurtz, l’orrore, un altro è la trilogia (considerabile come un film unico, con la dovuta pazienza) La condizione umana di Masaki Kobayashi, per la sua maestosità e la sua umanità inconfrontabili con qualsiasi altro progetto nel genere bellico in Giappone, e infine c’è Va’ e vedi. Coppola nel suo personale “cuore di tenebra” del 1979 si sofferma sulla maestosità dei momenti lasciando il movimento quasi in sottofondo per far percepire un senso di straniamento (tra profondità di campo e momenti fotografici di una bellezza che solo Storaro), e allo stesso modo, se non con un’intensità superiore tra senso dell’identità nazionale e semplice approccio umano, il bielorusso Klimov adopera un costante cambiamento nel mettere in scena gli eventi, spostando in continuazione l’occhio dai dettagli ai primi piani, dall’ambientazione ai colori, dalla gioia infantile più pura e melanconica al dolore incommensurabile e indefinibile legato alla guerra stessa. Florya ride dietro un cespuglio di fronte alle gag dell’imbecille amichetto, ma la risata è destinata a durare poco: trovato un fucile per terra con il desiderio di essere arruolato nell’esercito nonostante gli ammonimenti del padre, il giovanissimo abbandona la madre in lacrime per unirsi al plotone di partigiani agli ordini dell’invasivo e rigido comandante Kosach, che pare essere nel contempo irritato e invitante nei confronti di un’adolescente bionda dagli occhi azzurri che si aggira per il campo suscitando l’attrazione e l’attenzione dei soldati. Per un disguido mosso anche dall’assenza di fiducia di Kosach nei suoi confronti, Florya è costretto a rimanere indietro quando i suoi compagni di battaglia si muovono in direzione di una missione, e si ritrova da solo, nella foresta, con la ragazza, di nome Glasha, che alterna in maniera bipolare pianti disperati, risate isteriche, discorsi denigratori e approcci simil-sessuali. L’arrivo dei bombardamenti nel mezzo del bosco li sconvolge, lasciando Florya al limite della sordità. I due si trovano in uno ‘status corpi’ intermedio ma ben definito, tra la preoccupazione paranoica della continuazione della guerra sulla loro pelle e la ricerca di momenti idilliaci, lirici, dannunziani, tra l’acqua che cade dagli alberi e gli arcobaleni che passano nel mezzo. Il ritorno a casa di Florya giunge con la consapevolezza che i nazisti sono arrivati, e sono tutti morti. Florya e Glasha nuotano in un fango denso e sofferente per giungere al padre di Florya, col corpo bruciato dai nazisti, che dice: «Ve l’avevo detto… che non dovevate scavare». Nella depressione per i propri lutti, il protagonista va in missione con lo zio e con altri due partigiani per rubare una mucca per cibare i sopravvissuti, e a parte Florya muoiono tutti, anche la mucca. Provando a fuggire, Florya si ritrova in un villaggio mentre viene completamente depredato dai nazisti, tra incendi e omicidi brutali, tra stupri e altre follie. Solo dopo ore e ore di disavventura giungono i partigiani, portando a luogo una parziale giustizia attraverso un tradimento di un ufficiale. Solo adesso, attraverso una presa di coscienza riguardante la vita umana e la propria età della vita, può davvero raggiungere gli altri soldati, sotto le note della Lacrimosa mozartiana.
Il volto di Florya è una maschera grottesca tra le più potenti del cinema, e sono innumerevoli i suoi primi piani in cui l’identità e il sentimento sono continuamente messi in discussione, scossi, mischiati, alternati e alterati fino alla schizofrenia immaginifica. Il senso d’infanzia che traspare dalla sua pelle liscia finisce per degradare in una sorta di turbine finalistico, creando rughe, ferite, solchi, tramutando quel senso di innocenza bambinesca in un altro mondo di esperienze, negative e terrificanti, dando davvero un senso definitivo, probabilmente impareggiabile, dell’orrore bellico. Ma è un orrore umano, totale, esperibile attraverso la seconda guerra mondiale solo seguendo un pretesto – certo, un pretesto a cui Klimov è sicuramente legato anche autobiograficamente, ma attraverso il proprio vissuto ne può solo trasparire una storia dai toni assoluti, non solo da relegare all’evento stesso dello scontro tra nazisti e partigiani sul suolo bielorusso ma a un’ipotetica partita a scacchi tra uomini eterna. Ciò si può capire anche solo dal titolo, «Va’ e vedi», che riecheggia l’apocalisse, verso 6,1.3.5.7: è quello che viene detto dagli esseri viventi quando l’Agnello apre i sigilli. Il conflitto mondiale, filtrato attraverso lo sguardo biblico ed esagitato dei bielorussi, è un vero e proprio inferno sensoriale, una baraonda che trova la propria bellezza nell’esasperazione della tragedia umana, nelle venature surrealiste, nel coinvolgimento dello spettatore attraverso soggettive e piani sequenza dal sapore tanto tarkovskiano quanto decadente, molto prima che il piano sequenza fosse meta delle mode moderniste hollywoodiane, unendo quest’ardua tecnica di ripresa con un montaggio che rende lo scorrere degli eventi in maniera talmente maestosa e fluida da lasciare che ogni inquadratura, qualsiasi sia la sua lunghezza, scorra alla perfezione nell’ordine dell’organismo delle cose. È una manifestazione delle angosce della guerra che probabilmente non ha proprio possibili metri di paragone, come manifesto generazionale di una sofferenza che a suo modo ha un’ombra di fantasma, con un senso dell’immedesimazione e del caos che impressiona anche in quanto pre-figlio di Saul. La proiezione in Venezia Classici avvenuta in Sala Casinò, la prima di due (la seguente, la mattina dopo in Sala Volpi), è stata a suo modo completamente assurda, come parzialmente gli eventi mostrati nel film, o, meglio, la maniera in cui gli eventi stessi sono messi in scena: finito Va’ e vedi, con la sua prepotenza torrenziale e delirante che riempiva lo schermo con colori diversissimi e la sala con suoni indescrivibili, dopo una giornata umida e caldissima, l’uscita dall’edificio è stata contornata da un maestoso e terrificante temporale, e poi sono arrivati gli abbracci amichevoli, tentativi umili di empatia post-visione che può riempire il vuoto incolmabile derivato dalla sindrome di Stendhal e dal conseguente senso di non appartenenza, anche quando, come nel caso del sottoscritto, la visione non era certo la prima.
Visto nel restauro curato dalla Mosfilm (terzo notevolissimo restauro in DCP visto nell’ultimo anno, dimostrando una notevolissima cura per questo tipo di lavoro, dopo Solaris e La voce solitaria dell’uomo), Va’ e vedi a volte stupisce semplicemente per il proprio impatto. A volte, nel bene o nel male, il cinema in effetti si riferisce quasi solo a una sfera di vera e propria influenza sull’emotività individuale. Klimov non rivoluziona il linguaggio cinematografico, semplicemente lo usa alla perfezione, dando a ogni inquadratura la possibilità di bucare lo schermo con la propria sincerissima bellezza. L’effettivo perché dietro questa bellezza è una questione più complessa, appunto, emozionale: Florya e il regista trascinano in egual misura e in egual merito il pubblico in un viaggio che passa dalla commozione all’annichilimento, dalla risata amara al pianto con convulsioni. Il problema nel trattare un’opera cinematografica del genere, probabilmente, sta anche nel fatto che bisognerebbe scrivere interi saggi su singole sequenze: l’uso degli spazi e dei suoni nella scena d’apertura; il contatto tra la sfera semantica dell’ironia grottesca e quella della tragedia dell’abbandono delle origini nella scena dell’addio alla madre; il significato dello «scavare» nei monologhi del padre (uno scavo nella coscienza, nella Storia, nella violenza?); la tensione sessuale, con implicazione di pedofilia da parte del comandante, nei confronti di Glasha, che a suo modo potrebbe pure rappresentare l’incoerenza dell’ideologia nazional socialista teutonica, a partire dai suoi capelli biondi e dai suoi occhi azzurri ma anche semplicemente dal suo rapporto con l’essere Sovietici; il siparietto canterino e ballerino, con la musica che “scompare” in sottofondo, nella sequenza bucolica della pioggia tra gli alberi, vera e propria oasi paradisiaca per i personaggi, gli spettatori e l’immagine cinematografica stessa all’interno del film; i sogni di Florya e il suo inizio di pseudo-sordità; il furto della mucca in soggettiva; l’avanzare dell’isteria collettiva e disperante, che sfocia nella terrificante macrosequenza del raid nazista tra casolari in fiamme pieni di bambini e messe in posa di fotografie con pistole; e anche l’uso stesso della narrazione, che funziona alla fine come un turbine o una spirale, in direzione di un punto concentrico in cui in continuazione si può essere stupiti, angosciati, indignati dagli applausi dei soldati tedeschi al falò degli ebrei sovietici. Va’ e vedi, talvolta, smette quasi di essere un film da, in effetti ironicamente, andare e vedere, bensì è come una cosa a parte, un piccolo grande terremoto nell’inconscio, nella percezione personale di ogni spettatore di Storia, di cinema, di emotività, di infanzia e dunque del proprio stesso percorso o sentiero vitale, probabilmente. È quasi più un’esperienza interna che esterna, nel suo interiorizzare il mondo esterno fino a comunicare principalmente con gli occhi dei personaggi, con le rughe, l’espressività stessa di immagini che fluiscono apparentemente senza un ordine definito o definitivo. E probabilmente anche senza veri e propri riferimenti pregressi, nonostante probabilmente gli esordi di Konchalovsky, Tarkovsky, Larisa Sheptiko e Khutsiev in un modo o nell’altro possano far parte di una percezione generalizzata di come il cinema russo (e bielorusso) possa essersi evoluto attraverso gli anni.
Sul finale, tuttavia, è impossibile non contenersi. Alla fine dell’exploit infernale e malefico che si conclude con i nazisti che si tradiscono a vicenda prima di essere fucilati, Florya rimane agghiacciato e disperato, deforme nell’espressione facciale, mostruoso nello sguardo sempre più nero e sempre meno vivo. Nel momento stesso in cui lo spettatore, cominciando a meditare anche involontariamente sugli ultimi minuti di visione, comincia a chiedersi se il film è o meno un’operazione propagandistica “in ritardo”, giunge quella che è probabilmente la sezione più incredibile di tutto il film, con Florya che trova in una pozzanghera un ritratto di Hitler e gli spara, in un continuo campo-controcampo tra il volto del protagonista, col fucile sfocato, e il ritratto che comincia a sostituirsi con immagini di repertorio del dittatore fascista tedesco, che vanno indietro nel tempo. L’odio di Florya è un odio sincero, che scompone il tempo e scompone pure la relatività del rapporto tra immagini, sostituendo il recipiente del dialogo (e del riconoscimento) con un flusso cinematografico, un fattore di sconnessioni e riconnessioni che procede attraverso il recupero immediato delle immagini storiche, dei cadaveri delle vittime dell’Olocausto che si tramutano nei giovani tedeschi seguaci del Führer, mentre la musica va al contrario, e con essa le Valchirie di Wagner che cavalcano, finché l’immagine non si blocca su un Hitler giovane soldato, e lo sparo parte, e poi bambino, infante, bebè in fasce. Florya rimane immobile. Il fucile cala. L’umanità traspare: l’importante è quello, comprendere il proprio ruolo di umani superando il pessimismo che può fuoriuscire dalle situazioni di pericolo e di schieramento politico. Non è un film propagandistico perché non propone né promuove una soluzione a un problema, semplicemente, nonostante magari comunque si possa voler rivelare l’importanza del ruolo dell’Armata Rossa in determinate situazioni, mette in discussione l’umanità stessa, la condizione della rapportazione con l’altro nel momento di maggiore necessità di esso. Tra specchi e vetri, tra l’acqua e gli occhi dei nemici; il sangue scorre, e la violenza smette di essere fisica ma psicologica. Alla fine Florya non torna dai partigiani perché i partigiani sono la risposta ai suoi problemi (o ai problemi generalizzati della Bielorussia o dell’URSS), torna dai partigiani per scomparire tra i fantasmi dell’identità nazionale, per diventare semplicemente l’ennesima schiena irriconoscibile nella massa di soldati che svanisce tra i boschi, tra gli alberi, nel perenne terrore di ritrovarsi di nuovo ad andare e a vedere qualcosa che non dovrebbe essere visto né esperito. Sia esso un errore temporaneo, contemporaneo o estemporaneo, o sia esso un viaggio eterno verso la presa di coscienza di un’assenza di domande o di risposte, di un doveroso recupero delle problematiche esistenziali dell’esistenza stessa, delle necessità delle pulsioni violente e sessuali quando mischiate con quelle politiche, sociali, economiche, decisive. Tutto ciò non può che decretare che, probabilmente, nella sua forma deflagrante e ai limiti dell’indescrivibile senza incappare in banalità, Va’ e vedi è o potrebbe essere il più grande di tutti i film di guerra.
Nicola Settis