Due anni fa, Get Out è figurato tra i film horror di maggior successo d’incassi e di critica, soprattutto negli USA, portando il nome di Jordan Peele a essere scoperto e riscoperto, masticato dal commercio e dall’analisi cinefila, ricoperto di onori dai Cahiers du Cinéma come dall’Academy. Era un film feroce ma poco convincente, inventivo ma stanco, empatico nell’intreccio, freddo nella concatenazione degli stilemi filmici affrontati. Atlanta, la favolosa serie TV di Donald Glover, è riuscita l’anno dopo, nella sesta puntata della seconda stagione, Teddy Perkins, con la raffinata regia di Hiro Murai, a fare un tributo tematico e narrativo a Get Out che è, con una durata molto più ristretta, infinitamente più potente dell’esordio registico di Peele: lo stesso senso di claustrofobia è più ossessivo in Teddy Perkins, più morboso e inquietante della poco sottile macro-allegoria che Get Out propone per tutta la sua durata, con metà dell’impegno. Forse è perché Peele, comico televisivo cresciuto di popolarità anche grazie all’influsso di internet, è più abituato ai ritmi proprio del mondo televisivo e virtuale, e pur essendo novello e inesperto alla regia è ben riuscito a mascherare il suo manierismo derivato dai tempi della serialità drammatica contemporanea con riferimenti citazionisti (Eyes Wide Shut, Hitchcock, Ai confini della realtà e innumerevoli horror e thriller di matrice letteraria da Shining a L’invasione degli Ultracorpi) e soprattutto ideologici. Non è nebbia negli occhi degli spettatori, né uno scudo dalle critiche, ma è una modalità cinematografica d’intrattenimento tutta dei nostri tempi, con cui Peele forse sta involontariamente teorizzando un tipo di autore nuovo, pur simile a modelli hollywoodiani recenti – e così facendo sta unendo linguaggi simili ma separati. La stessa impressione si ha in Noi, che tuttavia sembra un superamento di alcune delle ingenuità che bloccavano Get Out rendendolo più pacchiano e meno intelligente e originale di quanto molti hanno sostenuto. In un’epoca in cui molti appassionati dell’orrore hanno avuto una soddisfacente quantità di incubi costruiti con grande perizia grazie ad autori esordienti come Ari Aster, Robert Eggers o David Robert Mitchell, Noi risulta tanto potenzialmente unico quanto sfortunatamente debole, soprattutto se paragonato alla sostanziale coerenza progettuale e mitologica dei debutti dei registi succitati.
È innanzitutto necessario dire che, come anche in Get Out, la visione in italiano è più che mai sconsigliata. In Get Out principalmente il problema era riscontrabile in come lo slang black è stato traslato nella nostra lingua – con improbabile ma ovvio doppiaggio molto ‘bianco’ e ripulito; e soprattutto era importante la contrapposizione tra la parlata del protagonista e quella dello sporco mondo imborghesito attorno a lui. Questa componente è meno cruciale in Noi ma comunque presente nel confronto tra la famiglia afroamericana degli Wilson, comandata dalla matriarca Adelaide interpretata da Lupita Nyong’o, e la famiglia bianca dei Tyler, simili per atteggiamento ai viziati disumani di Get Out ma messi sotto una luce meno negativa: le implicazioni dei paragoni fattibili tra i due nuclei famigliari sono sottili e non spremute alla goccia in un’analisi sociale che era già stata coperta a sufficienza in modo esplicito nel film precedente. Il vero problema linguistico di Noi risale in realtà nel titolo: per quanto sia una traduzione letterale, Us ha almeno due implicazioni da tenere in considerazione. Innanzitutto è il termine con cui in inglese “noi” è utilizzato come complemento oggetto, e non come soggetto, già implicando una sorta di gerarchia o insubordinazione, non piena essenza e immedesimazione. Gli “Us” del titolo, per chi tra i lettori non conoscesse ancora il fulcro narrativo della storia, sono doppelgänger. «It’s us.», dice il figlio di Adelaide appena riconosce le figure loro simili ma deformi e minacciose; i doppelgänger sono ‘us’, ma noi siamo ‘we’. Il rimosso e la violenza inconscia, da sempre il vero nemico psicologico e metaforico della letteratura e del cinema dell’orrore, porta il volto di noi stessi, ma qui l’apertura diviene anche sociologica. Us diventa un double-êntendre abbastanza esplicito quando Red, doppio di Adelaide e unica di loro in grado di parlare, per presentarsi dice «We’re americans»: Us = U.S., Stati Uniti d’America. I “noi” che nascondiamo, la rabbia sociale che reprimiamo (“noi” che apparteniamo alla classe borghese statunitense, sembra ammettere Peele, che siamo desensibilizzati dal “nostro” status sociale ma che in ogni caso dovremmo sentire una necessità di insorgere contro qualche sorta di ingiustizia, la “nostra” ingiustizia), si presenta come pura forza violenta, Es scatenato, e appartiene alla nostra stessa cittadinanza, alla nostra stessa nazione, perché fa parte di… noi. Teniamo tutto represso, nei sotterranei, nei tunnel, anche se vogliamo risalire verso la superficie per dimostrare che esiste anche quella parte di noi, il nostro tunnel.
Attorno a questa forte considerazione filosofico-sociale con molteplici spunti possibili, Peele fa varie scelte discutibili. Costruisce in maniera forse troppo verbosa la mitologia dietro i doppelgänger giustificando troppo poco nel dettaglio alcuni aspetti e troppo altri, rischiando il ridicolo oltre la semplicità dell’irrazionale horror. Come in Get Out c’è un’improbabile commistione di registro umoristico e tensione che non funziona quasi mai, la spalla comica del film è il padre della famiglia Wilson che la maggior parte delle volte è solo imbarazzante come il peggior stereotipo dello scettico all’interno dei tòpoi del genere. C’è una sequenza effettivamente divertente, che coinvolge il personaggio interpretato da Elisabeth Moss e Fuck the Police degli N.W.A., ma la maggior parte delle volte che Noi prova a uscire dalle proprie rotaie fallisce e sembra che deragli lo spettatore al di fuori di un’esperienza cinematografica fluida e coerente. In realtà, anche buona parte della sezione centrale e finale del film, basata su violenza, inseguimenti e suspense, è stilisticamente inefficace, troppo rocambolesca e caotica a causa di un montaggio confuso, di una sceneggiatura sempre più ambiziosa e desensibilizzata rispetto a se stessa e di una colonna sonora movimentata e onnipresente. Il colpo di scena finale è prevedibile e non aggiunge nulla a quello che il film già diceva fino a quel punto, nonostante molti spettatori e critici l’abbiano considerato il momento in cui davvero si crea un’ambiguità che rende comprensibili le azioni dei personaggi. Il problema, forse, è che Peele sa iniziare i film, ma non sa continuarli. In Get Out la questione era più complessa: la prima scena era la migliore, poi c’erano vari alti e bassi e il finale uscito nelle sale non era niente di che – quello alternativo scritto da Peele e non accettato dai distributori sarebbe stato un pugno in faccia che avrebbe reso tutta l’operazione molto più interessante. In Noi l’incipit sussurrato a metà tra Magritte e Lewis Carroll è il momento più brillante, e finché i doppelgänger non arrivano si mantiene un’atmosfera funzionale, elegante, magari non in crescendo ma colma di spunti, di brividi timidi. L’arrivo dell’orrore implica l’arrivo dell’azione, e la magia si disperde. Il problema di questo tipo di cinema non è che non arriva al punto o che non mette in discussione cose che vanno messe in discussione, perché sennò il successo di Peele sarebbe inspiegabile; il fatto è che questi nuovi autori, a volte, mostrano troppo presto lo squalo.
Nicola Settis