UNSANE (2018), di Steven Soderbergh
In principio era il blu. Il blu della notte, il blu dell’incubo che ritorna dal passato, il blu dei materassi che avvolgono la camera di isolamento della struttura psichiatrica. È il blu del trauma, è il blu della paura, è il blu dell’incertezza, è il blu della follia. È quel blu in cui non riesci più a capire cosa sia realtà e cosa sia frutto della tua immaginazione, dei tuoi stati di shock, della finzione su cui si basa il mondo ben prima che il cinema, oppure del litio che ti viene somministrato ogni giorno a forza e contro la tua volontà nel pieno rispetto della legge, senza che nessuno, né la tua famiglia né la polizia né gli avvocati, possa fare nulla per tirarti fuori. Lo Stato, tramite i ricoveri coatti nei suoi ospedali psichiatrici – ormai chiamarli con il loro nome, manicomi, sembra brutto – può negare ogni tipo di diritto umano e individuale, può ritirare gli effetti personali, può lobotomizzare riempiendo di farmaci, può legare le persone al letto, può aggredirle “per legittima difesa”, può narcotizzarle, può annichilirle privandole della libertà, della personalità, di ogni tipo di indipendenza. È un’arma estremamente pericolosa, quella dei TSO, nata per essere utilizzata contro chi è realmente nocivo per se stesso e per gli altri ma in potenza politica, interessata, criminale, utilizzabile per zittire oppositori innocenti, o ancor peggio come piano delittuoso contro uno o più individui. Specialmente nel momento in cui le strutture psichiatriche guadagnano dai ricoveri e dal loro protrarsi, aggiungendo il business ai possibili interessi e calpestando ancor più i basilari diritti umani.
Ma questa è solo una delle innumerevoli stratificazioni di Unsane, nuovo e magnifico lavoro in concorso alla Berlinale di uno Steven Soderbergh ormai definitivamente tornato al cinema, che partendo dal fragore mediatico del caso Weinstein mette in scena un thriller dai riflessi più che velatamente polanskiani in cui Sawyer (una straordinaria Claire Foy), donna in carriera in passato vittima di stalking, si ritrova ricoverata contro la sua volontà proprio nella struttura in cui, sotto mentite spoglie, lavora il suo vecchio persecutore che da Boston l’ha seguita per gli Stati Uniti e nella sua nuova vita. Sawyer non può più nascondersi, non può più fuggire, potrà solo cercare di riprendere il controllo del gioco, magari proprio nella camera di isolamento imbottita di materassi blu, sorta di teatro blue screen nel quale la protagonista si ritrova sola con il suo aguzzino e il regista di Atlanta cattura le immagini con il suo iPhone. Dopo Logan Lucky, sorta di variazione sul tema degli Ocean’s, Soderbergh con Unsane cambia radicalmente, torna al più puro cinema di genere, e soprattutto sperimenta con le possibilità cinematografiche digitali decidendo di girare l’intero lungometraggio, appunto, con un iPhone, le cui lenti di qualità non eccelsa e la cui pasta flat contribuiscono ad acuire quel senso claustrofobico provato dalla protagonista, quel suo ritrovarsi rinchiusa, quel suo non sapere più cosa sia vero e cosa sia allucinazione. Ma non è solo una questione di immagine, il discorso teorico di Soderbergh sul melafonino è molto più complesso. L’iPhone è uno strumento leggero, piccolo, veloce, quello stesso strumento, digitale, con il quale si entra sempre più spesso nel mondo digitale, quello stesso strumento con il quale si videochiama una madre, si entra sui social network, ci si espone rendendo impossibile nascondersi e ancor di più si espone una propria versione fittizia, recitata, di finzione, la versione poser della quale un pazzo può innamorarsi. Soderbergh, per mettere in scena un mondo (/cinema) fatto sempre meno di carne (/pellicola) e sempre più di immagine (/digitale), affida le riprese allo stesso mezzo che la sua protagonista porta abitualmente nella borsa, quello con il quale non riesce a seguire a sufficienza i consigli del poliziotto di Boston esperto di stalking (gustoso quanto inaspettato cameo di Matt Damon) per diventare invisibile al suo aggressore, quello per il quale in sostanza viene ritrovata, fatta ricoverare, drogata e tenuta in pugno proprio da chi, con tanto di ordinanza restrittiva, le sarebbe dovuto rimanere più lontano.
Prima di tutto c’è la nuova vita di Sawyer, il suo lavoro, la sua serata tutto sommato piacevole passata con un ragazzo conosciuto – non certo per caso – su uno di quei siti d’incontri che avrebbe dovuto evitare a ogni costo. E poi, come un fulmine a ciel sereno, c’è la sua crisi. È come un lampo, è questione di un attimo, e nell’uomo che si è appena portata a casa rivede per una frazione di secondo il volto di David, il suo molestatore di un tempo, quello che allungava la mano alla ricerca di chissà cosa, quello che la tempestava di messaggi, quello che le entrava in casa facendole trovare inquietanti regali sul letto all’uscita dalla doccia, quello per il quale Sawyer ha cambiato Stato, ha cambiato vita, ha cercato di sparire e di ricominciare. È solo un miraggio, è solo una visione dettata dal trauma, ma tanto basta perché il passato bussi alla porta di Sawyer, tanto basta perché la sua psicologia rischi di crollare, tanto basta per ritrovarsi ricoverata, costretta ad assumere gli psicofarmaci, preparati e somministrati proprio da David, il cui scopo è proprio quello di confondere, drogare, inebetire, come in una geniale sovrapposizione fra il volto e la nuca, “botta” e incubo, stordimento e temporanea lobotomia. Quando riconoscerà il volto del suo vecchio molestatore anche nell’infermiere della struttura, sarà lei la prima a non capire quanto di quella somiglianza sia nella realtà e quanto nella sua testa, e David, dal canto suo, sarà ben felice di lasciarla per qualche giorno nell’incertezza, fino a quando non approfitterà dell’occasione per svelarsi facendo in modo che Sawyer entri nuovamente in crisi psicotica, che venga nuovamente sedata, che nessuno o quasi creda alle sue parole. A costo di eliminare fisicamente, pronto a uccidere simulando overdose oppure occultando i cadaveri per quell’egoistico desiderio e senso di possesso che confonde con l’amore, tutti quelli che invece le crederanno e cercheranno, inutilmente, di aiutarla.
Soderbergh costruisce un thriller dalle venature mental-orrorifiche che, nella maglie di una narrazione incalzante e perfettamente orchestrata, innesta un mosaico di psicologie fragili e frastagliate. Da un lato c’è Sawyer, molestata fino a farle perdere il lume della ragione, dall’altro c’è David, il suo molestatore, innamorato di un’idea tossica dell’amore e pronto a tutto pur di avere quella figura angelicata di Sawyer che tramite il palcoscenico digitale si è formata nella sua testa, e dall’altro ancora ci sono gli altri pazienti della struttura, sorta di aggiornamento di Qualcuno volò sul nido del cuculo con tutto il suo campionario di depressi, catatonici, schizofrenici, violenti, perigliosi (memorabile in tal senso una mai così frastornata Juno Temple), ma soprattutto uomini e donne tristi ai quali non è negata solo la libertà fisica, ma anche quella di pensare, di essere se stessi, di sentirsi normali. David è mosso da un desiderio malato diventato ossessione, e nel frattempo, sotto la sua divisa da infermiere, può permettersi di fare il bello e il cattivo tempo, protetto dal suo ruolo, protetto dalla legge, protetto da un sistema sanitario contro il quale non mancano bordate che si susseguono per tutto il corso del film, protetto da un’intera macchina statale sulla quale Soderbergh mira non tanto a fare luce, ma per lo meno a lasciare emergere le contraddizioni e le ambiguità più evidenti. La stalker procede per provocazioni e per improvvisazioni, riesce a provocare le crisi isteriche che faranno chiudere Sawyer nella camera d’isolamento, spegne le videocamere, si presenta solo da lei, e a questo punto sarà Sawyer a ribaltare la situazione, a metterlo in crisi. «Hai mai fatto sesso con qualcuna?» gli chiederà, come a ricordargli che le fantasie di cui vive non hanno corpo, non hanno carne, sono digitali come un profilo Facebook, o come l’immagine di quell’iPhone che con la sua maneggevolezza non ha più limiti, nemmeno il buio della notte, nemmeno gli spazi ristretti di un portabagagli. David ha basato la vita raccontandosi da solo una fiaba, e ora la sua fiaba anziché realtà sta diventando incubo, una striscia di morti, una lama, un sequestro, una nuova fuga in auto, e poi l’ultima aggressione, l’ultima difesa, il ritorno alla normalità. Forse. O forse no, perché il trauma può sempre tornare. Può sempre ripresentarsi come un’impressione sbagliata, come una persona scambiata con un’altra, come uno sguardo di smarrimento. Come il blu della notte, come il blu della stanza, come il blu della paura. Come il blu della follia. Come il blu di Unsane, film straordinario, complesso, stratificato, politico, potente, teorico. Lunghissima vita a Steven Soderbergh, autore vero, completo, straordinariamente acuto e quasi sempre sublime.
Marco Romagna