UNITED RED ARMY – THE YOUNG MAN WAS… part 1 (2012), di Naeem Mohaiemen
“Lottavano così come si gioca
i cuccioli del maggio era normale
loro avevano il tempo
anche per la galera
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia, la stessa primavera”
Fabrizio De Andrè, Introduzione, Storia di un Impiegato
L’edizione 2015 del DocLisboa è stata l’occasione per vedere, per la prima volta integralmente e nella successione degli episodi, la trilogia sul terrorismo rosso degli anni Settanta firmata dal regista bengalese Naeem Mohaiemen. Attraverso le forme libere e mutevoli del polittico, The Young Man Was… sembra voler indicare la precisa importanza della Storia come base di ragionamento per interrogarsi sul presente e tentare di sviluppare un qualche futuro, ma anche la necessaria presenza dell’autore per tirare le fila di un discorso giocoforza più ampio e sfaccettato, internazionale ma al contempo così radicato nella morfologia sociale e politica del nativo Bangladesh. Probabilmente, infatti, il “giovane uomo che era” è proprio il regista, capace di addentrarsi progressivamente negli eventi ripresi e raccontati, passando da narratore invisibile ad acuto commentatore, e poi ancora a intervistatore incalzante, nel tentativo di sbrogliare una ragnatela storica della quale è pressoché impossibile scorgere un centro. Composta da United Red Army (2012), Afsan’s Long Day (2014) e Last Man in Dhaka Central (2015), la trilogia del regista e videoartista bengalese si pone come una fotografia giocoforza sfocata, pennellate di Storia fra migliori intenzioni e più o meno gravi errori di valutazione, necessità di ricostruire le differenze fra l’utopia e l’azione, fra le premesse e gli attentati, fra gli idealismi e la cronaca. Il punto principale del lavoro è arguto e probabilmente inopinabile: quando le pur giuste richieste sociali sfociano nella violenza e nel terrorismo scatenano un effetto boomerang che Mohaiemen stesso definisce come un “Cavallo di Troia accidentale”, capace di ridestare, in opposizione, un drammatico risveglio delle destre abili a cavalcare il populismo e l’ignoranza di chi ha paura, salendo nei consensi e nei governi. La trilogia inizia e si chiude in Bangladesh, compiendo però una lunga circumnavigazione che passa dall’Armata Rossa giapponese agli attivisti olandesi, in odor di Autunno Tedesco (o in aperto contrasto, ed è proprio questo il punto) nelle parole degli intellettuali. I tre episodi, visti nella propria totalità, rivelano non solo il preciso impegno politico di Mohaiemen, ma anche la sua capacità squisitamente cinematografica di mutare radicalmente pelle a seconda del contesto, passando dallo sperimentalismo di pancia di United Red Army allo stile documentario decisamente più formale e canonico di Last Man in Dhaka Central, senza dimenticare la cura per il footage che compone buona parte del film centrale. Una trilogia particolarmente multiforme e stratificata, quella di Mohaiemen, ma al contempo ben focalizzata su un preciso momento storico fondamentale per giungere all’oggi, un periodo del quale è impossibile avere una sola interpretazione univoca, ma per tentare di penetrarlo è necessario ricorrere ad una poliedricità a volte claudicante e strabica di sguardi, eventi e opinioni. Eppure, pur consci dell’importanza dell’opera nella propria totalità, scegliamo di focalizzare questa dissertazione principalmente sul primo episodio, United Red Army. Perché si tratta dell’episodio più ispido, di quello più urticante, di quello più sofferto, di quello meno razionale, e forse proprio per questo dell’episodio più interessante, più emozionale, in grado di colpire e in un certo senso di racchiudere tutto lo spirito convulso del progetto.
Innanzi tutto, concentriamoci sul titolo, perché United Red Army non può che ricordare ai cinefili più attenti un’opera omonima somma e straziante, precedente di soli 5 anni rispetto a quella di Mohaiemen e a firma del sommo Maestro nipponico Koji Wakamatsu. Una prima premessa fondamentale è a questo punto di natura storica: sin dai primissimi anni Sessanta, il tessuto sociale del Sol Levante era in forte fermento. Come risposta popolare alle politiche sempre più occidentali, filoamericane ai limiti dell’imperialismo, che il Giappone stava tenendo sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, studenti, contadini e operai esasperati confluiscono nella United Red Army, potente movimento collettivo e paramilitare. L’obiettivo prefisso dall’Armata Rossa Unita è quello di preparare il Paese ad un’imminente rivoluzione culturale e proletaria, e anche molti intellettuali, fra i quali lo stesso Wakamatsu, entrano in maniera più o meno attiva a farne parte. Ma ben presto, come il regista nipponico ha raccontato nel critico film del 2007, gli ideali iniziali sembrano essere sopiti, sostituiti da un gusto deviato per la violenza gratuita e per il fanatismo. Del resto è Storia la seduta di allenamento e autocritica del ’72 nella quale quattordici “ribelli” vennero torturati e uccisi dai propri commilitoni, apice drammatico del film di Wakamatsu, come pure è Storia l’evento del 1977 documentato da questo United Red Army (The Young Man Was…) di Mohaiemen. Al tempo, il regista bengalese era un bambino di 8 anni, probabilmente seduto davanti alla televisione in attesa dei cartoni animati. Ma, al posto del suo programma preferito, sullo schermo vede apparire un grande aeroplano fermo nell’aeroporto di Dhaka, mentre due strani signori comunicano via radio in un inglese un po’ meccanico e stentato. “Noi stiamo sequestrando e uccidendo i ricchi borghesi, mica i proletari”, tuona la voce di uno dei sequestratori giapponesi sull’aereo; “Noi non ci conosciamo, ma stiamo parlando da ore e forse non ci vedremo mai”, risponde in uno slancio di umanità quella esausta e straziata del negoziatore bengalese sulla torre di controllo. Gli ostaggi, dopo un intero giorno di serrate comunicazioni, vennero rilasciati, e non ci fu alcuna vittima.
Naeem Mohaiemen, nella costruzione di questo film, è partito dal proprio ricordo e probabilmente piccolo trauma infantile, cristallizzato in quella conversazione. Un audio da sequenza thriller, dove ogni singola parola va soppesata, dove le vite umane in ballo sono tante, e basterebbe una piccola incomprensione per dare inizio a una strage. Un audio di per sé pienamente autosufficiente e vivo, pulsante, drammatico. Ed ecco che quindi il linguaggio cinematografico del regista bengalese, in questo primo episodio della trilogia, si mette intelligentemente al servizio della comunicazione radio e sorprende per efficace minimalismo: sullo schermo nero, l’audio nella negoziazione viene accompagnato da sottotitoli di diverso colore che si alternano per aiutare lo spettatore a capire chi stia parlando, trascinandolo per mano in una conversazione che si fa via via più drammatica e soffocante. Le richieste al governo giapponese, il negoziatore che cerca di salvare gli ostaggi, un dramma che non ha un volto, né un corpo, ma solo uno schermo nero e parole taglienti come lame, delle quali ci sentiamo testimoni impotenti. Nel frattempo, la vicenda esce dall’aeroporto di Dhaka, diventa un incidente diplomatico e un caso di pubblico dominio, e sullo schermo si alternano alle fasi del dialogo via radio i servizi del telegiornale, le comunicazioni ufficiali fra i governi bengalese e nipponico, persino divertenti spezzoni di un programma televisivo che aveva parte del cast in ostaggio sull’aereo. Stralci di ciò che rimane visibile, piccoli sguardi sul mondo, sporadiche esplosioni di luce e immagini fino alla liberazione degli ostaggi, un sedicente happy ending dal quale però non si può che uscire tutti sconfitti. Perché si torna sempre lì, a quello schermo nero, alla drammaticità di quelle voci rese metalliche dalla tecnologia del tempo eppure così gonfie di mille emozioni. United Red Army è uno sguardo al passato, una riflessione sul presente continuata poi con gli altri due episodi di The Young Man Was…, un interessante discorso cinematografico sull’immagine e sull’assenza della stessa, una ricerca di identità in un Bangladesh storicamente attaccato e ferito da più parti. Ma è anche e soprattutto un cortocircuito nel quale la realtà supera ogni possibile finzione, un nodo alla gola straziante, un dramma psicologico potentissimo. Una pièce sublime, per la quale non esiste una penna con la quale congratularsi: l’ha scritta la vita.
Marco Romagna