UNE FLEUR À LA BOUCHE (2022), di Eric Baudelaire
Guardi, qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: – Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!»
Luigi Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca, 1922
Ha sempre osservato gli sconosciuti, L’uomo dal fiore in bocca, immaginando dai più piccoli e insignificanti dettagli le loro vite, i loro luoghi, i loro piccoli problemi quotidiani. Eppure non c’è mai stato alcun reale piacere nel suo attento dedurre, rileggere e inventare le vite degli altri uomini, nel suo lungo tempo passato ogni giorno di fronte alle vetrine a guardare impacchettare i regali, nel suo analitico e meticoloso concentrarsi su ogni gesto e su ogni ambiente. Solo una profondissima malinconia, un amore disperato per la vita, e al contempo la necessità impossibile di riuscire a disprezzarla come unico modo per poterla abbandonare con meno rimpianti. Semmai il suo unico residuo piacere è sempre stato, nel testo originale di Pirandello come in questo nuovo e personalissimo Une fleure à la bouche che segna il (grande, ma ormai non è una novità) ritorno di Eric Baudelaire nella sezione Forum della 72ma Berlinale, proprio nelle nottate passate a dialogare con altri sconosciuti al bar, viaggiatori con qualche ora da perdere in attesa del primo convoglio del mattino dopo che hanno appena assistito impotenti allo sfilare via dell’ultimo treno della sera, proprio come lui, malato terminale, non può in alcun modo opporsi al destino mentre si sente irrimediabilmente sfilare via la propria stessa esistenza. Con la prevedibilità e anzi la previsione certa della sua morte, già passata pochi mesi prima a lasciargli quell’epitelioma sul lato della bocca in attesa di tornare per portarlo via, l’uomo ha finito per cambiare del tutto il suo approccio alla vita, per vedere ogni insignificante dettaglio trasformarsi in un patrimonio di vitalità in scadenza, per aggrapparsi disperatamente a ogni barlume d’umanità, al colore dei nastri dei pacchetti, alla ressa nei negozi in cui sono stati comprati, alle azioni più scontate del quotidiano, alle coppie che litigano dietro una finestra ma poi finiscono per fare l’amore, al materiale anonimo delle poltrone delle sale d’aspetto mediche, così diverso da quello dei divani ben più pregiati con cui lo stesso ricco dottore ha senz’altro arredato suo salotto ‘vero’ in un’altra ala della medesima abitazione-studio. Osservare quelle degli altri è il suo modo per tentare di afferrare all’ultimo respiro il senso stesso di quella (sua) vita che vede giorno dopo giorno allontanarsi, di cercarne il più intimo significato, come se attraverso l’anonimato dei volti incrociati per caso potesse recuperare nei suoi ultimi mesi le esperienze mai vissute e accumulare i ricordi che sa già che non avrà tempo di elaborare.
«Non vede la relazione? Neanche io. Ma è che certi richiami d’immagini, tra loro lontane, sono così particolari a ciascuno di noi; e determinati da ragioni ed esperienze così singolari, che l’uno non intenderebbe più l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di più illogico, spesso, di queste analogie», faceva dire lo stesso Luigi Pirandello al suo L’uomo dal fiore in bocca. Proprio per questo Eric Baudelaire, nel suo perfettamente filologico riscrivere per il cinema a distanza di un secolo esatto (e forse non a caso una pandemia dopo) l’atto unico che lo stesso drammaturgo e scrittore agrigentino aveva riscritto nel 1922 per il palcoscenico traendolo dalla sua precedente novella La morte addosso, parte da punti apparentemente tanto lontani da sembrare per molti versi opposti alla messinscena del testo originale, e che invece sono in sostanza la stessa cosa, lo stesso identico osservare dettagli, lo stesso identico (ragionare teorico sul) documentario. Come se in realtà nient’altro fosse che una sostanziale soggettiva dell’anonimo uomo della finzione, quello sguardo puramente documentaristico che, senza pronunciare né scrivere sullo schermo una sola parola, si posa sull’alienazione del lavoro semi-meccanizzato nel maggiore centro di smistamento fiori olandese, sui suoi rigidi piani di lavoro computerizzati, sugli automatismi per cui ogni singolo petalo, al contempo simbolo di gioia ma anche metafora di morte, può spersonalizzarsi e spersonalizzare nel fascino orwelliano di una catena di montaggio. Un adattamento meticcio, intelligentemente dicotomico, depistante e spiazzante nella netta divisione delle sue due parti, che non si limita a traslare la vicenda pirandelliana in avanti nel tempo e un paio di migliaia di chilometri più a nord, con un bar di Parigi in luogo dell’anonima stazione siciliana e con il riferimento alle case di New Orleans travolte dall’Uragano Katrina ad attualizzare e universalizzare la metafora di quelle di Avezzano e Messina terremotate nel 1908, e con un telefono cellulare e un inedito fratello per la necessaria sostituzione di una figura silenziosa, ma ormai tanto misogina e anacronistica da risultare impensabile, come la moglie sottomessa nel più profondo sud Italia dei primi del Novecento. Baudelaire, insieme alla co-sceneggiatrice Anne-Louise Trividic, parte semmai da una lettura brillante e da una comprensione profondissima del testo originale per stratificarlo ulteriormente, per dimostrare la sua attualità e la sua urgenza, per analizzarne la portata filosofica e la teoria dello sguardo, per amarlo e rispettarlo al punto di infondergli nuova e inedita vita, e quindi giocoforza nuova e inedita morte. È per questo che sta tutto nei punti di incontro fra i suoi contrasti, Une fleure à la bouche. Sta tutto nella dissolvenza fra l’esperienza e il ricordo, nella spina di rosa fra la realtà e l’immaginazione che tiene legate le due parti, proprio come tiene legati l’uomo che ormai quasi non ha più tempo e quello che invece ha ancora il lusso di poterlo sprecare.
Non è più la pura teoria del paesaggio di Also known as Jihadi, non è più il lavoro di gruppo dei bambini di Un film dramatique, e non sono più nemmeno le immagini mancanti da riscoprire con i super8 de L’anabase de May et Fusako Shigenobu, Masao Adachi et 27 années sans images. Questa volta il cinema di Eric Baudelaire sono i dettagli dei gesti sempre uguali degli operai e il fantasticare su un singolo fiore da regalare all’amata, la ripetitività del giorno contrapposta all’unicità di ogni notte, il rumore nel silenzio e la quiete nella parola, la corrispondenza impossibile fra due luoghi lontanissimi nello spazio e nel concetto eppure proprio per questo così perfetti da appaiare. È la finzione che ribalta per due volte – prima nella bellezza della vita, poi nella consapevolezza di abbandonarla – l’ipnosi e i minimi particolari del documentario industriale, è l’inseguirsi fino a incontrarsi in un’ibrida sospensione della vita e della morte, e poi ancora sono i fiori vivi che vengono automaticamente trasportati sugli stessi carrelli metallici degli obitori, mentre un uomo che aspetta a giorni la sua dipartita rifiuta di rimanere in casa scegliendo di vivere alla massima intensità fino all’ultimo minuto che gli rimarrà a disposizione. Fino a chiedere all’anonimo viaggiatore, per l’indomani, di contare i fili di un cespuglio per stabilire quanti giorni gli sarebbero ancora rimasti, ma di sceglierlo «bello grosso» per allungarla il più possibile, per donargli ancora un po’ di notti come quella appena trascorsa. Un lavoro intriso, al pari del testo da cui è tratto, di un esistenzialismo umanissimo, che come un puntuale critofilm sull’opera pirandelliana ne rilancia il senso più profondo in una riproposizione ampliata ed attualizzata eppure fedelissima, alla quale basta un fiore per affiancare alla vita e alla morte (attesa e inattesa, vicina e lontana) un accostamento contemporaneo tanto ardito quanto, nella ripetitività alienante dei gesti degli operai, nel loro essere considerati dalla società un numero di matricola e una mansione, intrinsecamente politico. Non resta che osservare i negozianti che mettono via i manichini e gli uomini che come silenziosi automi alla guida di un muletto spostano le orchidee per i magazzini, il barista che risistema i tavoli e i colpi di mouse che compongono i mazzi di fiori, i sorrisi degli avventori dell’altro tavolo e gli automatismi delle macchine per gli imballaggi. Non resta che ascoltare le pochissime parole chiave durante le aste nell’assoluto silenzio del lavoro e le tantissime che come un fiume in piena progressivamente trasformeranno il dialogo in monologo, o ancora il suonatore di mandolino già presente in lontananza in Pirandello che ogni sera alla stessa ora pizzica le corde di fronte al solito bar. Il resto è solo attesa, per L’uomo dal fiore in bocca come per tutti noi. Tanto vale cercare di riempirla con qualche sorriso. Basta non smettere mai di osservare, alla costante ricerca di qualcosa di bello e felice.
Marco Romagna