UNDER THE SHADOW (2016), di Babak Anvari

“Quando un jinn prende qualcosa di tuo, un oggetto a cui tieni e a cui sei emotivamente legato, ormai sei in suo potere e saprà sempre dove trovarti”. La figura del jinn, al plurale jinna, deriva direttamente dal Corano e, ancor prima di Maometto, dalla civiltà preislamica. È un’entità soprannaturale a metà strada fra l’angelico, il demoniaco e l’umano, pronta a spostarsi con il vento. È un qualcosa di mutevole, inafferrabile, profondamente maligno nel trascinare chi ne viene colpito in una spirale di inquietudine, terrore, orrore, odio, aggressività e morte. Under the shadow, folgorante opera prima del cineasta iraniano Babak Anvari candidata all’Oscar 2017 come miglior film straniero e presentata in prima italiana al Trieste Science+Fiction Festival 2016, pesca dalla tradizione più antica per confezionare un impeccabile horror che non si limita a suggerire sottotesti storici e politici, ma fa anzi di questi il vero e proprio cuore della vicenda: il soprannaturale nasce dalla sanguinosa guerra fra Iran e Iraq che ha falcidiato l’infanzia del regista a Teheran fra il 1980 e l’88, si pone come allegoria di quei tempi, di quei luoghi, di quella costante paura, prendendo a piene mani dalle storie tradizionali raccontate all’allora bambino Babak Anvari dalla madre, quasi per gioco, durante le fughe notturne dai raid aerei. Il 1988 sarà per sempre, per chi si trovava in Medio Oriente, l’anno dei bombardamenti sulle città e delle fughe notturne dalle case, l’anno del pericolo che viene dal cielo, e ora l’anno scelto da Anvari come contesto di un film in cui le entità maligne arrivano con una bomba che rimane conficcata nel tetto del palazzo dove Shideh vive con la figlia Dorsa, mentre il marito e padre è stato chiamato come soldato nel cuore dei combattimenti. Il male penetra dove c’è fragilità, dove ci sono tensioni nervose, dove c’è paura dell’inadeguatezza e del fallimento, dove c’è depressione, dove ci sono malessere e confusione, e non esiste terreno più fertile della casa di Shideh: una madre persa di recente, un marito al fronte, episodi di sonnambulismo alle spalle, gli studi universitari in medicina bloccati dalla recentissima rivoluzione khomeinista che ha costretto le donne al velo e ha fatto redigere le liste nere fra chi militava nella sinistra, condannando in sostanza la protagonista a essere bollata a vita e privata dei propri diritti civili e sociali fra cui quello allo studio e a un buon lavoro.

È un film sulla condizione femminile del tempo che ancora oggi perdura, Under the shadow, un film che si rivela smaccatamente progressista e antisessista fra le fughe di Shideh dall’ignoto dei jinna dimenticando a casa l’obbligatorio chador che termineranno in una stazione di polizia – “Crede di essere in Europa? Si deve vergognare ad andare in giro così” – e un progressivo e inarrestabile addentrarsi nella più drammatica impotenza di fronte a ciò che è più grande di noi e ci possiede, ci uccide, ci schiaccia – che siano le entità demoniache, che sia una società fondata sulla religione e a quasi esclusivo appannaggio maschile, che siano gli orrori della guerra e le bombe che piovono dal cielo, come portate dal vento al pari dei jinna, e al pari dei jinna inarrestabili, annichilenti, assassine. Shideh è di indole indipendente e materialista, una donna che crede solo in quel che vede, e il lento quanto inesorabile climax di Under the shadow, pronto a partire quasi come un dramma sociale per poi caricare progressivamente la sua devastante potenza d’inquietudine ed esplodere in un’ultima mezz’ora di ancestrale terrore come non se ne provava da molto tempo, è proprio il suo percorso verso l’oblio, l’ignoto, l’immateriale di una leggenda antichissima che arriva a rappresentare gli effetti della rivoluzione islamica, della guerra e della sua follia. La figlioletta Dorsa, avvertita da un inquietante amichetto che abita al piano di sopra e tutti gli altri credono muto, crede ciecamente nell’arrivo dei jinna, sa che attaccheranno a breve, e quando sparirà la sua amata bambola, nonostante le fatiche di una Shideh disposta a smontare la casa pur di ritrovarla, sarà troppo tardi per opporsi alle presenze soprannaturali che metteranno la figlia contro la madre in un crescente groppo alla gola. Dorsa è febbricitante, sospesa fra il soprannaturale e il delirio, una bambina che avrebbe solo voluto recuperare la sua bambola, ma che si ritrova catapultata in una spirale inarrestabile di terrore. Come in It follows di David Robert Mitchell il pericolo poteva arrivare da ogni lato e avere ogni forma ponendosi come allegoria delle malattie sessuali, in Under the shadow l’allegoria della guerra vola inafferrabile e camaleontica, mentre la madre dice alla figlia “Ci siamo solo io e te” ma nel frattempo inizia a rendersi conto che c’è davvero qualcosa di inspiegabile e destinato a distruggere il suo approccio scientifico da aspirante medico, riaprendo alla religione e al mito più antico. Non sono più le lente camminate del male nel film di Mitchell, qui oltre all’inesorabilità c’è anche la velocità dei jinna, come una lotta ancor più impari fra l’uomo e il soprannaturale. Gli oggetti in casa si spostano e spariscono, ombre quasi impercettibili sfrecciano fuori dalle finestre e per le stanze, la crepa nel soffitto causata dalla bomba si allarga e richiude per permettere il passaggio da un piano all’altro di questo inafferrabile nemico, e persino il marito sembra essere a un certo punto tornato, ma si rivelerà solo una proiezione, una mutazione del jinn che attaccherà la donna nel suo letto in una delle sequenze più spaventose del film.

A nulla servono le strisce incrociate di scotch sulle finestre e sulla crepa, il jinn è ormai entrato nelle vite come una condanna e sta cercando di possedere la piccola Dorsa, mentre Shideh e la sua razionalità nulla possono di fronte a un nemico così eterno, potente, indistinguibile e inafferrabile. Babak Anvari, in questo suo film d’esordio, fa paura, tanta, e la fa con un appartamento, un lenzuolo, una bambola di pezza, un tostapane e un vecchio libro di testo con la dedica di chi non c’è più, oggetto affettivo senza prezzo che diventerà condanna. Under the shadow è un film di inquadrature sghembe e movimenti di macchina originalissimi, panoramiche oblique che ribaltano il punto di vista, cura fotografica e montaggio quasi subliminale nell’equilibrio scientificamente squilibrato e nella perfetta funzionalità di ogni singolo fotogramma, quando l’arte di arrangiarsi assurge a genialità, e non esiste maxiproduzione che possa competere. È un film che si dimentica ben presto della sua povertà di mezzi per trovare la propria forza nella messa in scena e nel montaggio, è un film orgogliosamente artigianale, è un film di una cura visiva e narrativa, di una profondità storico-politica e di un’originalità assolutamente sorprendenti e straordinarie, ancor di più in un debutto. Quando Shideh sarà definitivamente convinta di trovarsi al di fuori di un qualcosa che possa essere messo sotto il controllo materno o scientifico e si ritroverà di fronte la figura demoniaca e la figlioletta, non potrà che pronunciare il più disperato dei “Prendi me e non lei” che sarà però solo la definitiva rovina, con la bambola che ricompare a pezzi al posto del libro/oggetto fondamentale di Shideh e la bambina che sfebbra, ma le presenze continueranno per tutte e due le anime perseguitate, condannate per sempre alle presenze più inquietanti e maligne che il folklore antico abbia mai immaginato. Under the shadow è un’allegoria disturbante e inquietante, uno sguardo retrospettivo su una guerra che ha falcidiato città e civili, una lettura della condizione femminile e della Storia iraniana che non può che partire dalla più oscura fra le leggende persiane per diventare puro terrore. È un film di genere che parte dalla rottura della serenità per farsi via via sempre più oppressivo, metafisico, psicologico, fra il thriller e l’horror, fra la realtà e l’immaginazione, fra la tensione viva e palpabile della guerra e quella della mitologia. È un percorso che si addentra nel male più assoluto e nella paura più atavica, è un groppo crescente dal quale non sembra esserci via d’uscita, ma solo l’amarezza del destino. Come nel finale, così spietato, così atroce, così beffardo, così agghiacciante, con i sorrisi per la fuga che finiranno ben presto nella testa della bambola staccata, caduta e rimasta sulle scale di casa, in mano al jinn, così come il libro di medicina di Shideh le cui pagine, nel disastro del piano di sopra sventrato dalla bomba, ancora volano mosse dal vento. Quello stesso vento che porta i jinna, quello stesso vento che porta l’ignoto, l’inspiegabile, il maligno. E “Quando un jinn prende qualcosa di tuo, un oggetto a cui tieni e a cui sei emotivamente legato, ormai sei in suo potere e saprà sempre dove trovarti”: la maledizione non è finita, le presenze non passeranno, e prima o poi la morte più atroce sarà inevitabile.

Marco Romagna